08/02/2007, 00.00
IRAQ
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Sale la tensione etnica a Kirkuk

Ieri gli arabi sono scesi in piazza contro la decisione del governo di riportarli nelle loro terre d’origine, da dove erano stati fatti venire sotto Saddam. La città ricca di giacimenti petroliferi e gas è contesa da molti e il referendum che quest’anno ne deciderà lo status fa tremare più Paesi, dagli Usa alla Turchia. Il rischio che si apra un nuovo fronte di scontri minaccia anche la comunità cristiana.

Kirkuk (AsiaNews) – Mentre i riflettori dei media e della politica internazionale sono puntati su Baghdad, dove si registrano le maggiori violenze settarie in corso in Iraq, Kirkuk sembra avviata verso quella che è già stata definita la sua “mini-crisi”. Ieri – come riporta l’Integrated Regional Information Networks (IRIN) delle Nazioni Unite – circa 500 arabi, per lo più sciiti, hanno manifestato per le strade della città contro l’intenzione del governo di dare il via al loro trasferimento.

Lo scorso 4 febbraio l’Alto comitato iracheno per la normalizzazione di Kirkuk ha stabilito che “gli arabi arrivati da altre zone del Paese dopo il 14 luglio 1968 (quando salì al potere il partito Ba’ath di Saddam Hussein) saranno ritrasferiti nelle loro terre d’origine, dove riceveranno appezzamenti di terra”. A queste famiglie, in gran parte sciite del sud, verrà inoltre garantito un risarcimento di circa 15mila dollari. “Con o senza la forza, non lasceremo Kirkuk - dichiara Sheik Raad al-Najafi, locale leader sciita e seguace di al-Sadr – se i curdi proveranno a buttarci fuori, potrebbe verificarsi una pericolosa reazione”.

L’“arabizzazione” sotto Saddam. Per tutti gli anni '80 e gli anni '90, il partito Ba'ath ha sistematicamente cacciato via fino a 200 mila curdi e turcomanni dall'area urbana e da quella rurale di Kirkuk per far pendere l'equilibrio etnico della città verso gli arabi e garantirsi il controllo strategico dei giacimenti petroliferi. Dopo la caduta del regime di Saddam, migliaia di curdi sono tornati, chiedendo la restituzione della loro terra e dei loro beni e il diritto a votare nel referendum che quest’anno deciderà lo status della città. La Costituzione irachena (art. 140) promette di mandare via i coloni arabi, che riceverebbero un indennizzo, e di riportare i curdi a Kirkuk, una questione esplosiva per molti non curdi. “Sarà disastroso - dice Ali Mehdi, un membro turcomanno del consiglio provinciale - la gente non accetterà il dominio dei partiti curdi. Una guerra civile potrebbe scoppiare in ogni momento”.

Oggi il centro urbano del nord dell’Iraq conta circa un milione di abitanti, tra cui arabi, curdi, armeni, cristiani e turcomanni. Anche se generalmente non toccata dalle guerre confessionali che avvengono a Baghdad e nella zona circostante, gli osservatori dicono che le linee di divisione etniche che attraversano la città, il fatto che si sviluppi sul secondo giacimento petrolifero dell’Iraq e possieda il 70 per cento dei depositi di gas naturale del  Paese, ne fanno una bomba a orologeria; il confronto potrebbe opporre curdi ad arabi e trascinare dentro vicini come l’Iran e la Turchia. A danno anche dei cristiani, che nel nord trovano l’unico riparo dalle violenze che li colpiscono nel resto del Paese e per i quali – non senza forti riserve – si pensa ad una provincia apposita nella zona limitrofa della Piana di Ninive.

Un referendum a rischio. Tutto si gioca sul referendum che deciderà a fine anno se Kirkuk andrà alla regione semi-autonoma del Kurdistan oppure rientrerà in una provincia che sarà sunnita. Attualmente è in corso una lotta senza esclusione di colpi tra curdi da una parte e arabi e turcomanni dall’altra, per assicurarsi il controllo della provincia contesa. Se dopo la consultazione popolare dovessero essere i curdi ad amministrare la città, questi disporrebbero di una risorsa vitale e sufficiente a garantire una loro eventuale indipendenza dal resto dell'Iraq. Prospettiva cui si opporrebbero con forza Turchia e Iran, timorosi di possibili spinte nazionalistiche delle popolazioni curde che vivono all’interno dei loro confini.

Secondo alcuni analisti, Kirkuk dovrebbe avere uno status speciale di indipendenza senza alleanze con alcun blocco regionale. I leader curdi sostengono di non cercare né la supremazia etnica, né il petrolio, che potrebbe fornire loro una base economica per l'indipendenza futura. Vogliono invece correggere torti storici.

Il referendum fa tremare più Paesi coinvolti nella crisi irachena. I primi di gennaio il senatore Usa, John McCain si è espresso a favore di un posticipo del referendum. Secondo il politico, per definire la questione Kirkuk si deve aspettare che il governo centrale si rafforzi. La Comimissione Baker suggerisce invece il rinvio di un anno. Ma preoccupazione c’è soprattutto tra le nazioni limitrofe, che ospitano consistenti comunità curde nei loro confini. La Turchia, che ad Ankara ha ospitato di recente una conferenza sullo status di Kirkuk, ha già chiaramente fatto intendere di non gradire la soluzione curda e intanto muove truppe al confine. Immediata la reazione del governo del Kurdistan che ha detto di non tollerare interferenze o minacce esterne sulla questione.

Il deteriorarsi di sicurezza e diritti umani. Intanto fonti locali di AsiaNews riferiscono di una campagna di intimidazioni contro famiglie turcomanne e cristiane, costrette ad abbandonare le loro case dietro pressioni di gruppi non identificati. L’operazione fa pensare ad un tentativo di “manipolare” il voto referendario. Anche l’Onu il mese scorso ha denunciato soprusi a danno di arabi e turcomanni e avvertito del pericolo nascosto dietro l’escalation di attentati e violenze registratosi nella zona dal 2003.

Se si apre un nuovo fronte di scontri a Kirkuk anche i cristiani rischieranno molto. Prende sempre più consistenza l’ipotesi di “chiudere” la comunità in una regione-ghetto ben protetta e identificata nella Piana di Ninive. A due passi dalla ricca città petrolifera. E proprio dai cristiani di Kirkuk arriva un appello alla pace:  “Ricordiamo che Kirkuk è prima di ogni cosa una città irachena e la speranza di noi tutti è che possa diventare presto un simbolo della convivenza pacifica”. (MA)

 
 
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