Pechino e Santa Sede: l’unità della Chiesa prima dei rapporti diplomatici
di Bernardo Cervellera
Da dicembre fino ad oggi la Chiesa in Cina sta tentando di ricostruire con molta difficoltà il cammino per l’unità fra cattolici ufficiali e sotterranei, messo in crisi dalle strategie del Partito comunista. L’idea del “modello Vietnam”. Ma il timore di Pechino per la “Rivoluzione dei gelsomini” sembra prevalere sull’interesse a una pacificazione con la Chiesa e la società.
Roma (AsiaNews) - La Chiesa in Cina e il Vaticano si stanno riprendendo con lentezza dagli shock che hanno subito alla fine dello scorso anno e ormai nella Santa Sede e in Cina vi è chi pensa che non bisogna dare troppa importanza ai rapporti diplomatici.
Il primo shock è quello del 20 novembre 2010, quando p. Giuseppe Guo Jincai (nella foto) è stato ordinato vescovo di Chengde (Hebei) senza mandato del papa. L’ordinazione è avvenuta nella chiesa di Pingquan (Chengde) alla presenza di otto vescovi ufficiali legittimi, cioè in comunione con la Santa Sede. Secondo informazioni dei fedeli delle diverse diocesi, i vescovi sono stati forzati a partecipare alla cerimonia, che offende la comunione con il pontefice.
Uno shock ancora più duro è stato subito dal Vaticano e dalla Chiesa, quando almeno 40 vescovi sono stati costretti con la forza a prendere parte all’Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi, un organismo che Benedetto XVI considera non in linea con la fede cattolica. Per la Chiesa cattolica i vescovi dovrebbero essere sempre i leader delle assemblee; invece in questa, essi sono membri alla pari con gli altri, e in minoranza.
L’Assemblea si è tenuta a Pechino dal 7 al 9 dicembre 2010 ed è servita per eleggere la nuova leadership del Consiglio dei vescovi cinesi (non riconosciuto dal papa perché mancante dei vescovi sotterranei) e dell’Associazione patriottica, i cui scopi sono inconciliabili con la dottrina cattolica.
L’intelligente regia del Partito comunista ha portato all’elezione di Giuseppe Ma Yinglin, vescovo (illecito) di Kunming, come nuovo presidente del Consiglio dei vescovi cinesi; mons. Johan Fang Xinyao di Linyi (in comunione con papa) è invece il nuovo capo dell’Associazione patriottica.
In questo modo, un organismo composto da vescovi, viene guidato da una persona non in comunione col papa; nell’altro caso, un vescovo in comunione col papa viene posto a capo di un organismo contrario alla fede cattolica. Lo scopo di tutte queste decisioni era di rendere difficile la riconciliazione fra Chiesa ufficiale e sotterranea, dopo la Lettera del pontefice (del 2007) che esortava a una sempre maggiore unità. E bisogna dire che questa unità stava dando alcuni frutti.
In entrambi i casi il Vaticano ha pubblicato due dichiarazioni criticando con forza l’Associazione patriottica e la persona che sembra essere dietro tutti questi gesti, il laico Antonio Liu Bainian, vicepresidente dell’Associazione. Pur rivolgendosi al governo con rispetto e lasciando uno spiraglio per possibili dialoghi futuri, i documenti denunciano l’evidente mancanza di libertà religiosa e gli “atti inaccettabili e ostili”.
Da dicembre fino ad oggi la Chiesa in Cina sta tentando di ricostruire con molta difficoltà l’unità fra cattolici ufficiali e sotterranei. Per questi ultimi infatti, i vescovi ufficiali sono stati troppo deboli e remissivi, disubbidendo alle indicazioni del Vaticano (che aveva chiesto di non partecipare ad atti ed eventi contrari alla comunione con il Santo Padre).
Da parte di molti vescovi ufficiali vi è imbarazzo e dolore per essersi fatti trascinare in una situazione così ambigua. Dopo l’Assemblea, per la vergogna, alcuni prelati si sono nascosti per giorni in casa, senza voler incontrare nessun fedele. Alcuni sembrano invece scivolare verso un patriottismo assoluto, accontentandosi dello spazio che dà loro il regime e criticando il Vaticano che “non comprende” le ragioni specifiche della Cina (e cioè sottomettere la fede al governo).
In tutti c’è molta delusione perché si pensava che la Cina si stesse ormai incamminando verso una via tranquilla di rispetto della libertà religiosa che avrebbe portato alle relazioni diplomatiche. Anche in Vaticano, chi finora era stato pronto a qualunque compromesso con Pechino, chiudendo gli occhi su molte questioni, si trova deluso e frustrato.
Il gesto della Cina, così duro e violento, ha portato comunque a un risultato condiviso anzitutto da molti fedeli laici: dato che Pechino non è pronta a che la Santa Sede ordini i suoi vescovi, è meglio che il Vaticano rallenti i passi per giungere alle relazioni diplomatiche.
Anche i vescovi, ufficiali e sotterranei pensano che adesso il compito più urgente per loro è quello di rafforzare l’unità della Chiesa, e giudicano che “la politica religiosa del governo ha subito una battuta di arresto” (Wei Jingyi, vescovo di Qiqihar).
Da notare che anche personaggi dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino (come il prof. Ren Yanli) giudicano questo passo della Cina come un ritorno all’atmosfera del peggior maoismo.
In questa situazione così sbriciolata, sembra alquanto improbabile che proseguano i rapporti e i dialoghi di basso livello che finora avevano caratterizzato gli iniziali rapporti fra Pechino e la Santa Sede.
In Vaticano c’è però chi non si dà per vinto e spera sempre in un rinsavimento della politica cinese, ma è ormai chiaro che la Santa Sede deve tenere agli elementi fondamentali della sua fede e politica, senza scendere a patti. Allo stesso tempo in Vaticano si pensa come fare a ricostruire il rapporto con i vescovi, quelli fedeli e quelli che si sono mostrati deboli.
Una nuova proposta creativa del Vaticano è venuta dal discorso di Benedetto XVI al corpo diplomatico. Il 10 gennaio scorso, durante il suo incontro, che aveva a tema la libertà religiosa, il pontefice si è soffermato sul caso della Cina, denunciando i soffocamenti subiti dalle comunità cristiane ad opera dello Stato.
Allo stesso tempo, quasi a suggerire a Pechino un modello di rapporto fra Chiesa e Stato, Benedetto XVI cita subito dopo l’esempio di Cuba, un Paese comunista, dove da oltre 75 anni vi sono relazioni diplomatiche con il Vaticano. Più oltre il pontefice cita anche la positiva esperienza con il Vietnam, le cui autorità hanno “accettato che io designi un Rappresentante, che esprimerà con le sue visite alla cara comunità cattolica di quel Paese la sollecitudine del Successore di Pietro”.
Il “modello Vietnam” potrebbe essere usato anche per la Cina: non si tratta di rapporti diplomatici fra Stati, ma del permesso che lo Stato dà a che i fedeli cattolici della sua nazione abbiano rapporto con le gerarchie religiose legate alla fede, garantendo in tal modo la loro libertà religiosa. Il rappresentante vaticano per il Vietnam quasi senz’altro non risiederà in Vietnam, ma potrà visitare il Paese, secondo le esigenze del suo ministero e dei fedeli vietnamiti.
Nel mondo diplomatico si sa il forte rapporto che vi è fra Vietnam (il “piccolo fratello”) e la Cina (il “grande fratello”). In passato i due Paesi hanno copiato reciprocamente le aperture verso il mondo dell’economia e verso il Wto. È possibile che si copino vicendevolmente anche per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa cattolica e il Vaticano.
Una struttura simile – secondo il “modello Vietnam” – è stata suggerita anche da alcuni vescovi italiani alla Santa Sede per superare lo scoglio dei rapporti diplomatici con Pechino. Secondo questi suggerimenti, ci dovrebbero essere in alcune zone attorno alla Cina (si fa il nome di Singapore, Hong Kong, Macao, Taipei,…) dei rappresentanti papali che possano avere la libertà di viaggiare in Cina e incontrare i fedeli e i vescovi cattolici.
Altre personalità – profondi conoscitori della Cina e vicini al Vaticano – fanno notare che l’assenza di relazioni diplomatiche non impedisce la vita della Chiesa in Cina e non mette in causa la fede dei cattolici. Ciò significa che è possibile aiutare la Chiesa cinese anche senza i rapporti diplomatici. Anzi, alcuni fanno notare che tendere ai rapporti diplomatici adesso allontanerebbe di più i cattolici sotterranei dal Vaticano e umilierebbe l’autorità morale della Santa Sede, dato il modo in cui la Cina si sta comportando verso la sua popolazione e il modo in cui non rispetta i diritti umani.
Ma il “modello Vietnam” ha anche le sue difficoltà: esso infatti suppone una buona volontà della Cina verso la Santa Sede, tanto da permettere a questa ancora la scelta dei vescovi e le visite pastorali dei suoi rappresentanti. Purtroppo, nel momento presente la Cina si sente accerchiata dalle pressioni internazionali (v. il Nobel a Liu Xiaobo, che Pechino definisce “un criminale”) ed è terrorizzata dai problemi interni (carovita, inflazione, disoccupazione, divario fra ricchi e poveri, inquinamento,…) che stanno aumentando la tensione sociale.
In più, molti dissidenti, nel loro impegno per la dignità e i diritti umani scoprono che la loro radice è il cristianesimo e di convertono alla fede cristiana. Per Pechino l’unità fra la dissidenza e la fede è la paura più grande.
L’unica possibilità che Pechino accetti un compromesso con la Santa Sede e che essa si offra come garanzia per una pacificazione sociale, che è il bisogno più grande della Cina di oggi.
Finora le intenzioni di Pechino non si sono espresse. Intanto molti candidati all’episcopato, scelti dalla Santa Sede, attendono di essere ordinati. Se Pechino desse il permesso per almeno alcune di queste ordinazioni, significherebbe che è pronta ancora al dialogo. Ma per ora tutto sembra molto difficile: a Pechino domina più la paura di una “rivoluzione dei gelsomini” che il desiderio di una pacificazione con la società e con la Chiesa.
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