Nuove catene di approvvigionamento: sono gli operai cinesi a farne le spese
Lo afferma un rapporto pubblicato dal Centre for Research on Multinational Corporations e dal China Labour Bulletin, che dal 2011 monitora gli scioperi in tutto il territorio nazionale. Nel 2023 le proteste per il mancato pagamento dei salari e la chiusura delle fabbriche sono aumentate di dieci volte rispetto all'anno precedente. Una tendenza motivata da diversi fattori: l'incremento del costo del lavoro, le conseguenze della pandemia e le guerre commerciali tra Cina e Occidente.
Pechino (AsiaNews) - A fare le spese delle pratiche di “riduzione del rischio” messe in atto dai Paesi occidentali in conseguenza alla crescente competizione economica con la Cina, sono prima di tutto i lavoratori cinesi, che nell’ultimo anno si sono ritrovati, più che in passato, a scendere in piazza a causa di mancati pagamenti e chiusura delle aziende. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nei giorni scorsi dal Centre for Research on Multinational Corporations (SOMO) e dal China Labour Bulletin (CLB), che, per trarre le loro conclusioni, si sono basati sulle ragioni che hanno spinto i lavoratori delle fabbriche - soprattutto del settore tessile e tecnologico - a scioperare.
“Questo non significa - si legge nel documento - che i posti di lavoro o le catene di fornitura non debbano mai spostarsi. Non c'è nulla di intrinsecamente sbagliato nel fatto che le aziende esaminino più da vicino i rischi della loro catena di approvvigionamento e adottino misure di mitigazione adeguate. Ma il de-risking aziendale non può semplicemente spostare i rischi o i danni sulle spalle dei lavoratori. I marchi e i rivenditori devono essere consapevoli delle loro responsabilità e considerare i rischi per i diritti dei lavoratori associati alle dinamiche di spostamento delle catene di approvvigionamento, anche in Cina, e adottare misure aggiuntive per garantire che queste decisioni non contribuiscano ad abusi collettivi dei diritti dei lavoratori”.
Secondo l’indagine, infatti, intitolata “Chain of consequences”, “i lavoratori cinesi che per decenni hanno tenuto in piedi le catene di approvvigionamento nei settori dell'abbigliamento e dell'elettronica stanno ora lottando per essere pagati o stanno perdendo il lavoro a causa della riduzione degli ordini o della chiusura o delocalizzazione delle fabbriche”.
Da “fabbrica del mondo” la Cina è diventata, quindi, in anni recenti, un mercato dal quale distanziarsi a causa di diversi fattori, tra cui l’aumento del costo del lavoro, le tensioni tra la Cina e l’Occidente e le conseguenze della pandemia da covid-19. Ma si tratta, in realtà - spiega il rapporto - di una tendenza “anti-globalizzazione” iniziata con la crisi economica del 2008 e proseguita poi durante la pandemia. “Negli ultimi 10-15 anni, produttori e rivenditori hanno spostato parte della produzione dalla Cina ad altre parti del mondo” si legge. Una tendenza confermata dai dati: secondo un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio dell'Unione europea in Cina, nel 2023, il 75% delle aziende europee “ha rivisto le proprie strategie di approvvigionamento negli ultimi due anni, il 24% ha in programma di spostare almeno una parte delle forniture dalla Cina e il 12% ha già avviato il processo”. Una realtà che riguarda anche le aziende americane e gli investimenti taiwanesi in Cina, soprattutto quelli nel settore manifatturiero. “Questa tendenza - continua il rapporto - è ancora in corso e riflette un cambiamento nelle priorità aziendali, con le imprese che ora pongono maggiore enfasi sulla resilienza della catena di fornitura e sulla mitigazione dei rischi”. Così facendo, però, le aziende non tengono conto dei rischi per i lavoratori.
Nonostante tutte le difficoltà legate al contesto cinese (dove tutti i sindacati devono essere affiliati alla All-China Federation of Trade Unions, che tende a soddisfare gli interessi del governo e delle aziende più che rappresentare gli interessi dei lavoratori), dal 2011 il CLB monitora gli scioperi in tutto il territorio nazionale. L’anno scorso gli episodi di protesta sono aumentati di dieci volte rispetto al 2022, e si sono concentrati nelle zone di produzione orientate all'esportazione che si trovano lungo la costa sudorientale della Cina: il delta del fiume Pearl nel Guangdong, l'area del delta inferiore dello Yangtze intorno a Shanghai e la provincia costiera del Fujian.
Nel 68% dei casi si è trattato di proteste per stipendi non pagati, mentre nel 41% dei casi i lavoratori hanno riferito di essere scesi in strada a seguito della chiusura o della delocalizzazione della fabbrica in cui lavoravano. Non ci sono dubbi che gli scioperi siano legati “alla decisione dei marchi o degli acquirenti intermedi di modificare le loro pratiche di fornitura e di ridurre la loro dipendenza complessiva dalla Cina”.
Diversi lavoratori cinesi non sono stati pagati per mesi e poi sono stati licenziati. “Una situazione - spiega il rapporto - esacerbata dall’effetto cumulativo di molti acquirenti di un settore che effettuano cambiamenti di approvvigionamento nello stesso momento”. E oltre al mancato pagamento dei salari, dalla ricerca emergono altre due violazioni dei diritti dei lavoratori cinesi: gli scarsi preavvisi riguardo potenziali licenziamenti e il mancato o ridotto compenso una volta che gli operai vengono lasciati a casa. “Se la produzione rallenta a causa del calo degli ordini, la perdita di straordinari o di incentivi può indurre i lavoratori a dimettersi volontariamente, riducendo l'importo totale del trattamento di fine rapporto che la fabbrica deve versare”, commenta il rapporto. In altre parole, “anche quando i marchi e gli altri acquirenti affermano di dare alle fabbriche un ampio preavviso riguardo la loro intenzione di cambiare l'approvvigionamento, non sempre queste informazioni arrivano ai lavoratori”.
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