In missione fra le tribù dell'oppio e la giungla della modernizzazione
Roma (AsiaNews) - Un desiderio presente già dall'infanzia: portare Cristo anche a chi non lo conosceva. Poi la vocazione e la scelta della missione "laddove più urgente fosse stato il bisogno", non importava dove. Così padre Raffaele Manenti realizza il suo "sogno" e si ritrova nell'87, all'età di 30 anni, missionario del Pime a Chiang Mai, Thailandia. Proprio qui si prepara a tornare dopo 6 anni trascorsi in India, nella formazione, presso il seminario di Pune.
Ad AsiaNews ha raccontato l'esperienza pastorale dei primi anni di missione in Asia: la sorpresa inaspettata di scoprire che questa "è spesso più un ricevere che un dare", le difficoltà di entrare nella cultura thailandese. E in seguito, in India, la soddisfazione di partecipare alla "maturazione di una Chiesa, che arriva essa stessa al punto di esprimere vocazioni all'evangelizzazione". Ma in entrambi i paesi la Chiesa affronta ancora grandi sfide: modernizzazione, ideologia nazionalista indù e pregiudizi sociali sono solo i più evidenti.
Padre Manenti, partiamo dall'inizio: come nasce la sua vocazione?
Per me la missione è nata fin dall'infanzia come desiderio di far conoscere Cristo anche a chi non ne sapeva niente. Durante la formazione, questo desiderio è cresciuto e maturato attraverso anche verifiche e difficoltà degli anni di studio. Poi il sogno si è realizzato nell'87 con la partenza.
Perché la Thailandia? Quale ricordo del primo impatto con la missione?
Ho chiesto la Thailandia non perché la conoscessi in modo particolare, ma perché sapevo che lì c'era bisogno e così sarei partito prima. L'esperienza della missione in questo paese è stata molto forte. Per sintetizzare: è stato più un ricevere che un dare. Io avevo in mente una missione che era un portare agli altri qualcosa che avevo nel mio cuore, ma alla fine è stato il contrario. È la testimonianza ciò che annuncia veramente, non le parole. Per questo la missione mi ha costretto a verificare ogni giorno se mettevo in pratica la mia fede e a cercare di essere sempre più coerente.
All'inizio, soprattutto nelle realtà asiatiche, dove la lingua è una barriera che si supera solo con molto tempo, l'ingresso della missione ha sempre, di fondo, un elemento di pazienza. Questo, chiamiamolo "ostacolo", è però anche occasione di maggiore approfondimento. Offre la possibilità di avere tempo per entrare meglio nella cultura delle popolazioni con cui trattiamo. Questa fase di conoscenza e studio è provvidenziale e poi è un processo mai finito e mai scontato.
In cosa consisteva il suo lavoro in Thailandia?
Lavoravo con le tribù delle montagne, sono una decina in tutto e costituiscono una piccola minoranza: su 60 milioni di thailandesi sono 500 - 600 mila persone. Vivono al confine con il Myanmar e provengono da un'emigrazione recente. La maggior parte è già stata evangelizzata nell'ex Birmania, magari tramite amici e parenti. In un contesto del genere è sbagliato pensare che sia il missionario il protagonista della missione: egli è solo uno degli elementi, mentre il ruolo più importante qui è svolto dalla gente stessa e dai catechisti, che fanno un lavoro di primo annuncio. Noi arriviamo in un secondo momento, quando il terreno è preparato. Molte volte è la comunità stessa a chiamarci.
Con quali aspettative o bisogni questa gente si avvicina alla Chiesa? Quale aiuto si offre loro?
La motivazione iniziale può partire da bisogni molto materiali e umani come la ricerca di un'identità culturale o necessità economiche. Essendo popolazioni seminomadi, arrivate in Thailandia si sono trovate spaesate davanti alla crescente modernizzazione del paese. Il governo ha portato strade e elettricità un po' ovunque, anche nel tentativo di combattere la coltivazione dell'oppio.
Io, ad esempio, lavoravo con contadini di montagna, la cui economia e tradizioni non riuscivano più a soddisfare i nuovi bisogni creati dalla modernità era motivo di forte disorientamento.
Il primo modo di aiutarli è dare loro la possibilità di un'istruzione. All'inizio, 30 anni fa, erano i missionari che dovevano pregare le famiglie per mandare a scuola i figli, ora sono i genitori che pregano i missionari di prendere i loro bambini nel collegio della missione.
Questa rapida modernizzazione del paese incide sull'evangelizzazione?
La modernizzazione in Thailandia ha portato grandi cambiamenti e rischi: i giovani lasciano le campagne per la città, ma lo fanno in modo sprovveduto rimanendo così vittime dello sfruttamento sessuale o del commercio di droga. La partenza dei giovani dai villaggi, inoltre, sradica il processo avviato nella comunità cattolica locale. Prima il catecumenato coinvolgeva tutta la famiglia; oggi, invece, è un processo monco: molti iniziano la formazione quando i figli sono già in città, questi tornano e non si riconoscono più nei nuovi valori familiari.
Il problema persiste anche quando a partire sono i giovani già cristiani. Arrivati in città perdono la fede: non riescono a trovare un punto di riferimento e per questo tendono a mimetizzarsi con buddisti e thailandesi. La fede rimane solo come riferimento personale, ma non cercano una comunità, perché la presenza cristiana, soprattutto in grandi città come Bangkok, è molto piccola. A questo si aggiunge la difficoltà della pratica religiosa: le parrocchie non sono diffuse e la domenica non è giorno festivo, quindi anche solo andare a messa diventa complicato.
Per questo una sfida della missione in Thailandia è anche quella di riuscire a dare una formazione profonda abbastanza perché questi cristiani non si perdano, ma diventino anche loro missionari, testimoni del Vangelo.
Tra poco sarà di nuovo in Thailandia quali differenze nota con l'India, dove ha trascorso gli ultimi 6 anni?
La prima differenza che salta agli occhi è che in India la comunità cattolica è più numerosa e più visibile. La presenza cristiana è tangibile e risale ad antica data. Anche l'India vive sotto certi aspetti il fenomeno della crescita delle grandi metropoli, che attira i giovani dalle campagna. Essendo, però, una comunità multietnica per tradizione ci si riesce ad inserire meglio. Andare in città è sempre un perdere i punti fermi, ma qui c'è una possibilità in più per continuare ad aver un riferimento di fede. Stupisce, venendo dalla Thailandia, vedere come le comunità e le parrocchie nelle periferie di Mumbai, ad esempio, siano sempre molto animate e vivaci, un riferimento per tanti.
Quest'anno il Pime ha compiuto il 150esimo anniversario della sua presenza in India può farci un bilancio?
In India ho lavorato nella formazione dei giovani in seminario ed ho avuto modo di toccare con mano la gioia di partecipare alla realtà di una Chiesa maturata fino al punto di esprimere vocazioni all'evangelizzazione. È bello vedere come comunità fondate da più di un secolo, che hanno impiegato 50 o 60 anni per muovere i primi passi, ora esprimano vocazioni per la missione. Giovani che dicono: "Vogliamo essere anche noi come quel sacerdote venuto nel nostro villaggio o che abbiamo visto da bambini o di cui ci hanno parlato i nostri nonni". In questo modo la comunità si scopre chiesa universale e penso che le vocazioni ad essere missionari del Pime esprimano un po' questo. Come nel 1850 il Pime è stata un'espressione della maturazione della Chiesa italiana, così oggi penso che queste vocazioni alla missione ad gentes siano l'espressione di una maturità della Chiesa indiana, missionaria per sua natura. Basta vedere la maggior parte del personale diocesano, che è sempre misto tra nord e sud.
Quali i meriti della Chiesa indiana e quali sfide nel presente?
La Chiesa in India ha contribuito, per gradi, ad elevare socialmente i più poveri. I missionari si sono rivolti ai paria, aiutandoli sia economicamente che nella lotta per i loro diritti civili. Spesso, però, quello per cui si batte la Chiesa è anche quello di cui soffre. Bisogna ancora vincere certi pregiudizi sia fuori, nella società, che dentro lo stesso organismo della Chiesa. Ad esempio l'idea di una società rigidamente divisa in caste impedisce culturalmente ad alcuni sacerdoti di rapportarsi con certi gruppi sociali.
Ma oggi la sfida più grande è con l'hindutva, l'ideologia nazionalista indù. La sua diffusione invita la Chiesa ad essere sempre più autenticamente cristiana. Le notizie dei numerosi episodi di intolleranza religiosa, che arrivano di recente dall'India, oggi fanno notizia perché sono una cosa nuova. Prima, infatti, si viveva in armonia tra le fedi. Ma in seguito alla politicizzazione della religione ad opera dell'ex partito al governo, il Bharatiya Janata Party, il fenomeno si è radicalizzato. Nel momento del bisogno, nella vita normale, nella necessità, la convivenza e l'armonia tra le diverse comunità è, invece, ancora possibile e reale.
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