I 60 anni della Rpc: Da Mao ad oggi, la corruzione al potere
Roma (AsiaNews) – La Cina grande e potente che vuole celebrare i suoi 60 anni il 1° ottobre non vuole fare i conti con la sua storia. Molti vorrebbero verificare quanto degli ideali del ’49 è stato realizzato e quanto costituisce un tradimento.
Zhu Houze, che prima della liberazione era un membro sotterraneo del Partito comunista a Guiyang, intervistato dal South China Morning Post ( 22/09/2009) ricorda così la fondazione della Repubblica salutata col discorso di Mao Zedong in piazza Tiananmen: “Pensavamo che saremmo stati subito liberi e avremmo cominciato a costruire un Paese nuovo, libero, democratico e prospero”. Negli anni ’80 Zhu è stato anche ministro del dipartimento di propaganda del Comitato centrale, ma ormai è uno dei “delusi” dagli sviluppi del Partito. Vale la pena ripercorrere alcune tappe dei “successi”, ma anche dei “fallimenti” di questi 60 anni.
Considerando soltanto gli aspetti economici e politici, si può dire che nei primi anni il Partito si guadagna la stima della popolazione: niente corruzione o divisioni come ai tempi di Chiang Kai-shek; inflazione bassissima; industria pesante ricostruita (su modello sovietico); agricoltura in abbondante produzione. Ma la caparbietà di Mao e la sua incompetenza economica portano al Grande Balzo in avanti (1958-1961) che causa la morte per fame di circa 50 milioni di persone. Le storie della gente parlano di contadini disperati nella ricerca di cibo; di gente che muore ai lati delle strade; di affamati che si cibano delle carni dei cadaveri. Per frenare le critiche del partito contro di lui (che gli vogliono togliere il potere), Mao lancia nel ’66 la Rivoluzione culturale, che dura fino alla sua morte, nel 1976. La Rivoluzione culturale, che viene ancora oggi ricordata come il periodo del “grande caos”, divide la società, distrugge famiglie, uccide milioni di persone, divise fra “giovani” e “vecchi” del Partito; Guardie rosse e esercito; genitori e figli.
Le aperture di Deng Xiaoping, alla fine degli anni ’70, considerate l’ide brillante del “riformatore”, sono state in realtà una necessità. Per salvare la Cina dalla fame e rialzare le sorti di un’economia distrutta, Deng ha aperto il Paese agli investimenti stranieri e ha cominciato quelle riforme economiche che hanno portato la Cina agli splendori attuali.
Il problema con Deng è che le sue modernizzazioni (dell’esercito, della scienza, dell’agricoltura e dell’industria) mancano di una quinta: la democrazia. A causa di ciò, il Paese gode attualmente di uno status invidiabile dal punto di vista economico (in generale), ma continua ad essere un paria dal punto di vista dei diritti umani. Ancora dopo 30 anni dalle sue riforme, il Paese infatti non gode di libertà di stampa, di associazione, di parola, di religione; i poteri esecutivo, giudiziario, legislativo sono tutti sotto il controllo del Pcc.
La società cinese sacrificata al Partito
Bao Tong è un ex leader del Partito, caduto in disgrazia per aver simpatizzato con i giovani di Tiananmen nell’89. Ha subito per questo 7 anni di carcere e tuttora vive agli arresti domiciliari. In una lunga conversazione sulle modernizzazioni di Deng (in Radio Free Asia, 5/1/2009), egli fa notare che si deve proprio a Deng Xiaoping un cambiamento epocale rispetto a Mao. Pur con tutta la sua enfasi imperiale, il Grande timoniere aveva a cuore “il socialismo” come ideale del partito e del Paese. Invece Deng afferma che tutto in Cina deve servire a “mantenere la leadership del Partito”. Difendere il partito diviene la cosa più importante; difendere i diritti dei cittadini diviene un fatto secondario. In tal modo – Bao Tong spiega – l’esistenza del Pcc diviene lo stesso ideale a cui sacrificare la società cinese.
La Cina di Hu Jintao continua a favorire e migliorare l’economia in modo sorprendente: Pechino sembra aver perfino superato prima di tutti la grande crisi economica (se non si contano i circa 60 milioni di disoccupati). Ma la stabilità della società e l’egemonia del partito rimangono i punti fermi anche per la Quarta generazione della leadership.
I fallimenti e la corruzione
All’interno del Partito vi sono richieste di maggior democrazia e di riforme politiche. Lo stesso Zhu Houze, ora 78enne, insieme ad altri membri in pensione ha scritto varie volte alla leadership criticando la mancanza di controllo nei poteri del Partito, che genera la piaga della corruzione, domandando democrazia e una stampa libera. Ma non ha mai ricevuto alcuna risposta. “Dobbiamo superare – dice Zhu – la percezione ristretta del solo sviluppo economico del mercato e del mantenimento del partito unico. Dobbiamo iniziare la riforma del sistema politico”.
All’ultimo plenum del Comitato centrale (15-18 settembre 2009) si doveva parlare della lotta alla corruzione e della democrazia interna nel Pcc. Ma non è emersa alcuna indicazione concreta. In compenso, in uno dei tanti incontri per celebrare i 60 anni, Hu Jintao ha predicato sul suo slogan preferito: “l’armonia fra gruppi etnici e religiosi”, “rafforzare la solidarietà” “risolvere le contraddizioni”, “portare avanti la democrazia”. Ma ha subito precisato che non si tratta di “copiare i modelli occidentali”, bensì di attuare un sistema con “caratteristiche cinesi”, in cui è sempre salva la “supremazia del partito comunista”.
Eppure davanti agli occhi di tutti sono evidenti i grandi successi, ma anche i grandi fallimenti della Cina: una società in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell’economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione che arriva a sottrarre allo Stato fino al 3% del Prodotto interno lordo; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l’università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito. A causa di tutto ciò, ormai il Partito viene visto come sinonimo di “corruzione”.
Un fatto citato da Asia Times (23 settembre 2009) racconta che una bambina di 6 anni a Guangzhou, rispondendo alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” ha detto: “Voglio diventare un funzionario corrotto. La mamma dice sempre che un funzionario corrotto può avere molte, molte cose a casa sua”.
Gli “incidenti di massa” e la società civile
Diversi analisti si domandano se una Cina così, gigantesca nelle prestazioni economiche, ma zoppa nelle riforme politiche, potrà continuare, o se prima o poi sarà così vulnerabile da soccombere.
Già oggi i segni di inquietudine aumentano di pari passo con gli apparenti risultati economici.
Secondo le ultime stime apparse sulla stampa cinese, lo scorso anno vi sono stati oltre 100 mila “incidenti di massa” (almeno uno ogni 4-5 minuti), ossia proteste di centinaia o migliaia di persone che chiedono giustizia per i soprusi, o per paghe non pagate, o per avvelenamenti o sequestri di terreni. La cifra è superiore del 16% ai casi ufficialmente registrati dal Ministero della pubblica sicurezza nel 2006 (87 mila incidenti). Tali “incidenti” hanno anche portato a incendi delle sedi di partito, delle sedi di polizia, a scontri a fuoco fra polizia e manifestanti, a morti su entrambi i fronti.
Il Partito continua a predicare “la stabilità innanzi a tutto” ed è pronto – come nei giorni precedenti alla festa dei 60 anni – ad arrestare persone (circa 6500), disseminare carri armati, spie e poliziotti.
Per salvare la sua supremazia, il Partito continua a far morire il popolo, proprio quel “popolo” a cui appartiene la “Repubblica popolare cinese” fondata 60 anni fa.
Ma il tempo non passa invano. Il fatto più sorprendente è che in tutti questi decenni è cresciuto proprio “fra il popolo” una società civile sempre più attenta ai propri diritti. Fra di loro vi sono attivisti, giornalisti, avvocati, consumatori, madri, impiegati, imprenditori, burocrati. Nella stretta non violenza essi denunciano le malefatte dei quadri del partito; si appellano per la salute dei loro figli avvelenati (come nel caso del latte alla melamina); difendono i loro diritti sulla terra e sulla proprietà; affermano il diritto alla libertà religiosa; esigono di poter votare per esprimere la loro preferenza per uno o l’altro leader.
Secondo Bao Tong, la riforma della società cinese sarà compiuta da questo “movimento per i diritti civili”. “Se la gente può difendere i loro diritti e viene dato loro ciò che è loro dovuto; se lo Stato si piega davanti all’opinione pubblica e i funzionari si mettono a servirla; se la gente può verificare il lavoro dei burocrati, che gettano via il loro cosiddetto ‘diritto divino’ di governare; allora c’è speranza per la Cina… Le speranze per la Cina si basano su un pacifico, pronto, persistente movimento per i diritti civili, che userà l’attivismo per attuare la Costituzione e salvare questa nazione e il suo popolo”. (Fine seconda parte).
28/10/2017 09:12