18/02/2024, 12.53
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Faustino Tissot e la sua eredità per la Chiesa in Cina oggi

Un libro pubblicato in Italia ripercorre la storia del vescovo missionario di Zhengzhou, l'ultimo predecessore di uno dei tre vescovi da poco ordinati nella Repubblica popolare cinese. Un esempio straordinario di coraggio e fedeltà al Vangelo nelle carceri comuniste che Paolo VI lodò per l'amore che mantenne sempre vivo anche nell'esilio per il gregge che gli era stato affidato.

Milano (AsiaNews) - Le recenti nomine episcopali in Cina hanno portato alla ribalta la diocesi di Zhengzhou, nella provincia dell’Henan, una Chiesa locale che con l’ordinazione di mons. Wang Yuesheng è tornata ad avere un vescovo dopo più di settant’anni. Prima di lui l’ultimo presule era stato il missionario saveriano trentino mons. Faustino Tissot (1901-1991), che fu incarcerato e poi costretto dalle autorità comuniste all’esilio nel 1953, come accadde in quegli anni a tutti i missionari stranieri in Cina.

Proprio alla testimonianza eroica di mons. Tissot e al suo amore mai spento per la Cina, anche nei decenni successivi a questo tragico epilogo, è dedicato un libro pubblicato recentemente in Italia. Intitolato “Contentissimo di essere in Cina” è stato scritto dal confratello p. Gabriele Ferrari ed edito dal settimanale diocesano di Trento, Vita Trentina: in un’agile biografia, ripercorre la storia di questo missionario originario della Valle di Primiero e la sua straordinaria testimonianza, che rappresenta un’eredità preziosa anche per la Chiesa in Cina oggi.

Mons. Tissot fu nominato da Pio XII vescovo di Zhengzhou il 10 maggio 1946. Per il missionario trentino - che al tempo si trovava in Italia come sostituto del superiore generale dei saveriani – si trattava di un ritorno nella terra che era stata la sua prima destinazione missionaria e dove aveva svolto il suo apostolato dal 1926 al 1933, prima di essere richiamato in Italia dal suo istituto come maestro dei novizi. Mons. Tissot tornava in Cina in una situazione già difficilissima: a due anni dalla morte del predecessore, il primo vescovo (anche lui saveriano) mons. Luigi Calza, questa frontiera missionaria faceva i conti con le ferite lasciate dietro di sé dalla guerra sino-giapponese, il volto locale della Seconda Guerra mondiale.

P. Faustino si rimboccò le maniche per rialzare la sua comunità. Ma ebbe appena venti mesi per farlo in piena libertà: il 28 ottobre 1948 la città fu infatti occupata dai rivoluzionari comunisti. I “rossi” - come li chiamavano i missionari - fin dal giorno del loro arrivo a Zhengzhou si insediarono proprio nella casa del vescovo e se ne riservarono il piano terra, costringendo mons. Tissot e gli altri missionari e sacerdoti locali ad abitare al secondo piano.

“Dalle quattro del mattino alle dieci di sera sempre in camera (perché questi sono gli ordini) - raccontava il vescovo al fratello in una delle poche lettere che riuscì a inviare -. La camera di metri 5×4, un letto, una scrivania, un comò e un armadio, nel quale c’è l’altare e il Santissimo Sacramento ben nascosto. Quindi, sempre in compagnia di Gesù che è tutto il mio conforto, vuoi che non preghi spesso? Ricordo quindi voi tutti, uno per uno, e vi invio ogni giorno la mia benedizione.

“Mi si sono fatte molte accuse, le più strampalate e false naturalmente - aggiungeva -; ma fino ora non sono state sufficienti per farmi partire. Non preoccuparti di me; mai come in questi anni ho toccato con mano le delicatezze della divina Provvidenza, che pensa non solo alle anime, ma anche al materiale. Pregate tanto per me, perché porti non solo con pazienza, ma anche con gioia le mie croci”

Il 30 luglio 1953, poi, i rivoluzionari locali colsero un pretesto banale per passare da quella forma di sorveglianza a un vero e proprio arresto: durante un temporale estivo era entrata dell’acqua dalle finestre sconnesse del piano superiore e dopo aver allagato il pavimento del piano superiore, era tracimata anche nella parte occupata dai comunisti a pianoterra. Questi inscenarono una gran sfuriata contro i missionari accusandoli di voler rovinare la casa che con il loro arrivo era stata occupata e dichiarata proprietà del popolo.

Negli interrogatori i rivoluzionari comunisti insistevano con il vescovo soprattutto con una richiesta: dimettersi per lasciar scegliere a loro un successore. E fu su questo punto che la resistenza di mons. Tissot fu eroica. “Ricordati bene che le strade sono due - raccontava il presule riferendo le minacce ricevute - o nominerai vicario quello o ti manderemo ai lavori forzati; ti toglieremo la veste, ti taglieremo la barba, ti vestiremo in camicia con un paio di calzoncini corti, e sarai costretto a trasportare 2000 mattoni al giorno. Per il momento va a pensarci bene nella cella di rigore”. Ma Tissot rimase fermo: “Fate pure, ma io non posso tradire la mia coscienza. E se la mia salute non mi permetterà di portare 2.000 mattoni al giorno, ne porterò 500”.

“Nel corso delle udienze i giudici insistevano perché chiedessi di andar via - raccontava ancora -. Ma io rispondevo: ‘No, se il governo non mi manda via, io resto’. Il 12 novembre a sera sono chiamato in tribunale per quello che sarebbe stato un ultimo interrogatorio o un ultimo assalto: ‘Abbiamo saputo che tu hai dell’oro nascosto, devi consegnarlo al governo’. Questa informazione era falsa. E allora tentano con una minaccia: ‘Se non ci dici dove tieni i soldi, tu non parti dalla Cina’. Ma ecco la pronta risposta: ‘Mi fate un piacere’”. Quella stessa notte lo chiamarono di nuovo ingiungendogli di partire subito.

“Così - annota padre Ferrari - con una apparente sconfitta, che in realtà fu la gloriosa conclusione del suo episcopato cinese, monsignor Tissot fu espulso da quella terra che aveva amato e che continuerà ad amare fino alla fine della vita, la terra che alla fine era la patria del gregge affidatogli in modo solenne nel 1946. Fu cacciato di notte, come un cane, derubato di tutto. Non gli consegnarono né le vesti, né la croce pettorale, né l’anello. Arrivò al ponte di Luo Wu, al confine con Hong-Kong con una povera veste cinese e un paio di pantofole. Era il 1 novembre del 1953”.

Non sarebbe stata comunque la fine del suo ministero episcopale, che anche in quell’esilio forzato in Italia avrebbe continuato a svolgere al servizio della missione, sia a Propaganda Fidae sia nell’istituto saveriano. Ma la sintesi più bella della vita di mons. Tissot sarebbe stato poi papa Paolo VI a scriverla nel 1971 in un messaggio che gli scrisse per i 25 anni del suo episcopato e che il libro riporta. Montini sottolineava la particolarità di “un anniversario che, mentre di norma suole essere celebrato in letizia, trascorri invece con i confratelli della tua famiglia religiosa, mescolando con le lacrime il puro gaudio del cuore”. Invece “nella vita ritirata, che ora conduci in Roma, il tuo ricordo correrà alla tua diocesi di Zhengzhou, della quale sei stato pastore prudente, operoso, coraggioso, tale da riuscire a tutti di esempio. Alla tua memoria riaffiorerà, come sopra uno schermo, tutto quello che ti fu dato di ideare, di realizzare, di soffrire nella lontana nazione cinese per la diffusione e la gloria del Vangelo”.

“Nel ricordare una ad una, insieme con te, queste cose - concludeva Paolo VI - ti riteniamo essere considerato del tutto degno della stima nostra e di tutta la Chiesa, la quale nella tua persona onora la genuina virtù di coloro che per la fede ‘sperimentarono ludibri, flagelli, catene e prigionia’ (cfr. Ebr. 11,36) e che, pur essendo innocenti, provarono l’oltraggio e la violenza. Tuttavia nessuna ombra di amarezza ti impedisce di amare di amore intenso e perenne quel popolo, dal quale sei stato allontanato, e di mantenere con tutti la pace e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore (cfr. ivi, 12,14)”.

 

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