Diaoyu/Senkaku, la prima vittima dello scontro è l’economia
Pechino (AsiaNews) - Nell'anniversario dell'incidente che 81 anni fa diede il via all'invasione giapponese della Cina, i rapporti fra Pechino e Tokyo sembrano peggiorare di giorno in giorno. La disputa sull'arcipelago conteso delle Diaoyu/Senkaku non accenna a calmarsi: entrambi i governi hanno le proprie ragioni per farla invece crescere. La Cina vuole distrarre la popolazione dal prossimo congresso del Partito comunista, che a ottobre sancirà la nuova leadership cinese, mentre il Giappone ha bisogno del sostegno più ampio possibile in un momento storico in cui sta cambiando la propria politica energetica ed economica.
Il 18 settembre del 1931 l'esercito giapponese fece saltare in aria un pezzo di ferrovia in Manciuria e diede la colpa dell'incidente ai dissidenti politici interni alla Cina. Noto come "l'incidente di Mukden", divenne il pretesto per l'ingresso delle truppe imperiali nella parte nord-orientale del Paese e la spaccatura del governo repubblicano. Le truppe di Tokyo rimasero fino al 1945, anno in cui l'armata maoista e quella repubblicana riuscirono a cacciarle dal Paese.
Oggi, in nome della difesa della sovranità nazionale, entrambe le nazioni permettono manifestazioni e violenze interne. Due attivisti giapponesi sono arrivati sulle isole contese: Pechino ha chiesto a Tokyo delle "spiegazioni urgenti" e ha avvertito che "non saranno tollerati" altri atti del genere. Nel frattempo nelle acque dell'area sono presenti 6 motovedette cinesi e migliaia di pescherecci, scortati dalla Marina comunista.
Non è chiaro il valore dell'arcipelago. Si pensa che esso abbia anzitutto un valore strategico, trovandosi sulla rotta delle più importanti vie marittime; altri affermano che oltre alle acque ricche di pesca, nel sottofondo marino vi siano sterminati giacimenti di gas. Nel 2008, come gesto di distensione, i due governi hanno firmato un accordo per lo sfruttamento e la ricerca congiunti nell'arcipelago, che tuttavia è rimasto lettera morta.
In Cina, poi, si stanno svolgendo da giorni decine di manifestazioni anti-nipponiche in altrettante città. La polizia, presente in tutte le zone coinvolte, non interviene mentre migliaia di manifestanti lanciano sassi contro negozi e sedi diplomatiche giapponesi. Secondo diversi analisti, la "calma" delle autorità riguardo a questi scontri si giustifica con l'interesse del governo a tenere l'attenzione pubblica lontana dalla politica interna, sconvolta da scandali e in procinto di dare il via al Congresso che sancirà l'ingresso della "Quinta generazione" di leader comunisti.
Anche il Giappone ha i suoi problemi. Un uomo è stato arrestato nella città meridionale di Fukuoka con l'accusa di aver lanciato due bombe carta contro il consolato generale cinese. La polizia ha identificato l'uomo come Yuya Fujita, 21 anni, operaio di cantiere edile e membro di un gruppo di attivisti politici. Ha dichiarato di aver lanciato le bombe come "protesta contro la Cina": per fortuna nell'attacco non è rimasto ferito nessuno.
Anche Tokyo ha i suoi motivi per non reprimere i sentimenti anti-cinesi. Il governo ha annunciato che entro 30 anni non si ricorrerà più all'energia nucleare per lo sviluppo industriale, e questo ha dato un serio colpo alle previsioni di crescita economica. Inoltre, entrambi i partiti maggiori cercano di fomentare il popolo per ottenere voti durante la prossima tornata elettorale.
Le prime vittime di questo conflitto ancora virtuale sono le aziende. La Nissan Motors ha perso il 2,5 %, la Honda l'1,4 % e la Fast Retailing il 4,9 %. La Panasonic ha chiuso la propria fabbrica di Qingdao, la Canon ne ha chiuse tre, Honda e Nissan hanno interrotto la produzione per due giorni, la Mazda per quattro, Seven & Holdings ha chiuso 13 supermercati e 198 punti vendita. Mentre la Sony ha diramato una circolare in cui invita i propri dipendenti a non viaggiare in Cina a meno che non sia "proprio essenziale".
Ma il problema potrebbe essere divenuto oramai strutturale. Il Giappone, nonostante la storica rivalità con il Dragone, ha delocalizzato moltissimo in Cina: il basso costo del lavoro garantito dal regime e il valore troppo elevato dello yen nipponico hanno reso infatti sempre più conveniente alle aziende del Sol Levante la produzione dislocata. Ora questa ondata di proteste e di nazionalismo potrebbe costringere gli industriali giapponesi a cambiare la propria strategia.