22/10/2024, 10.09
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Card. Mathieu: cristiani in Iran, testimonianza 'periferica' ma 'trasparente’ della fede

di Dario Salvi

Ad AsiaNews il neo porporato racconta una comunità che “non è una realtà a sé” ma “condivide difficoltà e problemi” del resto della popolazione, che è “accogliente” ma soffre “per le sanzioni”. Nel grido dei poveri, nell’ecologia, nella casa comune “il terreno di dialogo” con l’islam sciita. 

 

Città del Vaticano (AsiaNews) - Una realtà “periferica”, che condivide “difficoltà” e problemi come il resto della popolazione perché “quella dei cristiani non è una realtà a sé". Chiamata per questo a essere il lievito di questo Paese”, perché come diceva san Francesco, quando non si può predicare con la parola predichiamo con la nostra vita e diamo testimonianza dell’amore di Dio con la nostra vta in modo trasparente”. È quanto racconta ad AsiaNews Dominique Joseph Mathieu, arcivescovo di Teheran-Ispahan dei latini, uno dei 21 nuovi cardinale (qui la lista completa) annunciati da papa Francesco il 6 ottobre scorso, annunciando il concistoro che si terrà il 7 e 8 dicembre. Abbiamo incontrato il neo-porporato a margine dei lavori del Sinodo il giorno precedente l’annuncio della creazione a cardinale e abbiamo già pubblicato alcuni brevi estratti dell’incontro, uniti alle prime parole del nuovo cardinale raccolto dalla nostra agenzia poco dopo aver ascoltato l'annuncio del pontefice. In questa seconda parte, approfondiamo i temi della lunga intervista spaziando dall’attualità in Medio oriente, in cui soffiano impetuosi venti di guerra e crisi, sino alla situazione della comunità locale. 

Di seguito l’intervista completa all’arcivescovo di Teheran-Ispahan:

Mons. Mathieu, dopo aver trascorso tre anni a Teheran cosa ci può raccontare?
La situazione è differente rispetto al periodo del mio arrivo, segnato dalle proteste per la vicenda legata a Mahsa Amini. Oggi in questa grande Teheran, in cui vivono circa 17 milioni di abitanti, il quadro generale è cambiato in positivo. 

Come descriverebbe, dopo averlo conosciuto in questo tempo trascorso dalla nomina ad arcivescovo di Teheran, il popolo iraniano?
È un popolo molto accogliente, che però fatica ad essere inquadrato. Infatti, io stesso durante l’assemblea sinodale, quando dovevo dire a quale zona continentale apparteniamo, faticavo a rispondere. Non siamo dei Paesi arabi, ma non è nemmeno Asia; ciononostante, tutti guardano con attenzione a questa realtà sulla rinnovata “Via della seta”, perché ricca di risorse e non solo della terra, come petrolio e gas, ma anche intellettuali. E non è nemmeno l’immagine che viene spesso usata, e rilanciata, dall’Occidente fatta di fotografie che ritraggono barbe e chador. 

In Occidente, e nei media, vi sono dunque preconcetti nel racconto della realtà iraniana?
Assolutamente! Vi è una visione preconcetta parlando dell’Iran: è un Paese pieno di contrasti. A soffrire è soprattutto la popolazione a causa dell’embargo economico e delle sanzioni [occidentali] in vigore, che sono causa di gravi problemi. Questo avviene pur se l’Iran ha firmato accordi della durata di 25 anni con la Cina ed è un membro sempre più importante dei Brics [il raggruppamento delle economie mondiali emergenti formato in origine da Brasile, Russia, India e Cina]. E, con il nuovo presidente Masoud Pezeshkian, vi è anche un tentativo di maggiore dialogo e riavvicinamento con l’Occidente stesso.

I focolai di guerra in Medio oriente, che rischiano di trasformarsi in un unico grande rogo, hanno determinato un innalzamento della sicurezza?
Confermo un normale rafforzamento delle misure di sicurezza come peraltro è avvenuto anche in Italia e in altri Paesi in Europa a presidio di punti sensibili. I giornali hanno rilanciato i timori di possibili infiltrazioni come successo fra i ranghi di Hezbollah. In questo quadro si innescano le tensioni con Israele, anche se Teheran in entrambe le occasioni in cui ha fatto uso delle armi lo ha fatto annunciando l’operazione con molto anticipo; più che per un obiettivo di vittoria, sembra emergere la cultura della “sfida” nell’islam, anche se finiamo per ritrovarci, pure qui, nella logica del conflitto. 

Quanto è prevalente l’influenza della religione in politica?
Ritengo che oggi viviamo in un quadro globale [che non riguarda solo l’Iran], in cui la logica politica e il linguaggio della diplomazia sono improntati alla guerra, alla minaccia, alla vendetta e questo è un peccato. Vi sono voci che denunciano il fallimento delle istituzioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite a Gaza il cui insuccesso è evidente. La stessa Unione europea ha fallito, sono organismi deboli e specchio della contraddizione di un Occidente che parla di cessate il fuoco, di tregua, mentre inviano armi. Lo ha ripetuto anche papa Francesco nel suo recente viaggio apostolico in Belgio: oggi, nel mondo, vi è un problema più generale legato al fatto che la classe dirigente sembra più interessata a se stessa che al popolo che guida. 

A livello di libertà religiosa qual è la situazione? In particolare per i cattolici vi sono restrizioni o limiti nel culto?
A livello normativo chi non è musulmano sciita viene inquadrato in un gruppo etnico e, di conseguenza, alla sua religione. La stessa Chiesa latina, composta in gran parte da migranti asiatici, non è inquadrabile in un gruppo etnico ed è per lo più riconducibile al personale di ambasciata o a lavoratori stranieri immigrati.

In tema di dialogo interreligioso, soprattutto con l’islam sciita, si registrano passi significativi?
Vi è tolleranza e vi sono rapporti da molti anni, soprattutto con religiosi e chierici sciiti che fanno riferimento all’università [i seminari] di Qom, la quale cerca contatti con istituzioni religiose o facoltà teologiche cattoliche. Ciononostante restano difficoltà anche solo nella definizione di autorità religiosa: a differenza della Chiesa, essa non è legata a una “chiamata divina” [la vocazione], quanto piuttosto a un progresso, un cammino in relazione agli studi e attività compiuti, secondo una crescita totalmente differente dalla nostra. Avendo vissuto in Belgio, in un quartiere musulmano, e un certo tempo in Libano, mi sono reso conto che laddove il “dialogo teologico” può essere percepito come “debolezza”, vi sono punti di incontro e di confronto come quelli toccati dal papa nella “Fratelli tutti”, nella casa comune, nel grido dei poveri, nell’ecologia, i temi ambientali, possiamo trovare un terreno fertile, perché è una preoccupazione anche per il mondo musulmano.

Perché è importante mantenere e sostenere la presenza cristiana in Iran?
Anche se i cristiani sono una piccola minoranza, l’importanza è di rimanere. Papa Francesco nei suoi ultimi viaggi ha privilegiato la cosiddetta “Chiesa dello 0,…”. Ecco, in Iran si parla di “0,00…” ma è fondamentale esserci, anch’io sono convinto che sia molto importante sebbene spesso le porte delle nostre chiese siano chiuse, e questo è triste. Restrizioni su chi poter ricevere in chiesa, limitano il manifestare appieno il valore dell’inclusione per come la intendiamo. Evitiamo di muoverci su un terreno molto scivoloso ma, come dico sempre, anche dove la porta è chiusa, l’importante è che ci sia sempre una porta. Perché una porta è sempre un invito a entrare, nei tempi stabiliti da Dio.

Ci può raccontare qualche aspetto che l’ha colpita della realtà cristiana locale…
È una realtà piccola, caratterizzata da due comunità perlopiù anglofone, una delle quali fa riferimento alla cattedrale che si trova nel territorio dell’ambasciata italiana, perché era la chiesa degli italiani quando vivano nel Paese come operai impiegati nella costruzione di ferrovie e dighe. La maggior parte dei lavoratori stranieri oggi ha lasciato l’Iran e si è stabilita una comunità di immigrati provenienti da tanti Paesi principalmente asiatici, poi il personale delle rappresentanze diplomatiche e i lavoratori domestici rimasti, sposati e con figli. Una realtà che apprezzo molto, assai viva, che pur nelle difficoltà [ad esempio non è possibile avere nuovi sacerdoti, ndr] ha saputo trovare il modo di vivere una certa forma di sinodalità. Vi sono infine buoni rapporti fra cattolici di rito latino e assiro-caldei, armeni, anche se queste ultime sono Chiese etniche e, in quanto tali, possono ricevere solo fedeli appartenenti a quel rito specifico.

Eminenza, un’ultima domanda: a maggior ragione nel futuro prossimo da cardinale, quali saranno le sue priorità in tema di pastorale?
Pur essendo una periferia, mi sono reso conto dell’importanza di esistere, di esserci. In questo senso la nomina a cardinale ha mostrato, a partire dal pontefice, che non siamo dimenticati. Possiamo avere problemi economici, difficoltà, ma le condividiamo col resto della popolazione, quella dei cristiani non è una realtà a sé. Dobbiamo vivere con la gente del luogo, usufruendo delle stesse risorse e affrancandoci dalla logica dell’assistenzialismo esterno. Il mio obiettivo, sul piano pastorale, è formare persone perché si assumano la responsabilità della Chiesa locale, anche se servirà tempo, perché noi siamo - o dobbiamo essere - il lievito di questo Paese, dobbiamo mettere a disposizione la nostra ricchezza di seguaci di Cristo, essere di amore incondizionato e misericordia. Parafrasando san Francesco, quando non si può rendere testimonianza con la parola facciamolo con la nostra vita: credo che questo sia ciò che ci si aspetta qui dai cristiani. Infine, l’importante è affermare la presenza in modo trasparente, senza nascondere nulla di quello che siamo.

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