Boom dell'economia cinese, tutto a svantaggio delle donne
Hong Kong (AsiaNews) Per la Festa della Donna, il piatto forte è che nel prossimo volo spaziale vi sarà anche una donna astronauta. Lo ha annunciato Gu Xiulian, presidente della Federazione femminile di tutta la Cina (All China Women Federation, ACWF), alla vigilia dell'8 marzo.
Malgrado ciò, la discriminazione verso le donne sul lavoro è ancora fortissima e si aggrava nelle zone rurali. Il China Labour Bulletin (bollettino a cura del dissidente cinese Han Dongfang) ha pubblicato ieri alcuni documenti e statistiche che provano come il boom economico cinese sta rendendo ancora più difficile l'emancipazione femminile.
Secondo la ACWF, dal 1949 le donne inserite nel mercato del lavoro sono aumentate, passando da 600 mila a 31,28 milioni nel 1978 (dal 7,5% al 32,9% della forza lavoro). Attualmente le lavoratrici sono 330 milioni, il 46,7% della popolazione attiva cinese. Si registra una forte disparità di trattamento rispetto agli uomini: le donne sono relegate soprattutto a lavori meno qualificati, a ruoli subordinati di scarsa soddisfazione materiale e morale.
La discriminazione sul lavoro ha la sua causa principale nella bassa istruzione delle bambine. Esse, invece di andare a scuola, sono relegate ai lavori domestici o ad accudire i fratelli, che invece ricevono l'istruzione adeguata. Dopo la privatizzazione dell'economia, le spese scolastiche sono aumentate e le famiglie non riescono a sostenerle. Preferiscono mandare a scuola i maschi piuttosto che le femmine, considerate solo un onere economico di cui "usufruirà" la famiglia del marito. Secondo stime ufficiali, nei 9 anni di istruzione obbligatoria, l'83% di coloro che abbandonano la scuola sono femmine. Nel 2000, il tasso di alfabetizzazione delle donne era del 78% (contro il 92% degli uomini). In molti casi, le bambine non vanno a scuola perché, a causa della politica di controllo delle nascite, non vengono registrate, per lasciare il posto ai figli maschi che si prenderanno cura dei genitori anziani.
In tal modo le opportunità d'impiego per le donne si limitano a settori poco qualificati e di duro lavoro fisico (industrie manifatturiere, alberghi o ristoranti, lavoro domestico) o in ambiti considerati "femminili" (biblioteche, insegnamento nella scuola primaria). Negli ultimi anni, cresce il numero delle donne che svolgono il lavoro agricolo, spesso sostituendo i mariti, emigrati nelle città per cercare lavoro e guadagni migliori: nel 2001, il 61,6% degli agricoltori sono donne; per il 2003 la percentuale arriverà al 67%.
Le leggi approvate negli anni '90 per promuovere la parità hanno fatto peggiorare la discriminazione di genere nel lavoro, evidenziando soprattutto il fatto che la donna, dovendo essere anche madre, è soggetta a maggiori discriminazioni.
Nella maggior parte dei casi, per la possibilità che restino incinte, le donne sono licenziate dopo pochi anni di servizio o mandate in pensione prima degli uomini. In passato, nelle unità di lavoro delle imprese statali si fornivano sussidi di maternità, ma ora il governo li ha ridotti o eliminati.
Nelle nuove imprese private, la maggior parte delle donne lavora senza contratto e condizioni sicure. Spesso si preferiscono ragazze sotto i 18 anni, perché ritarderanno l'età del matrimonio e dei figli.
Il fallimento di molte imprese statali ha colpito soprattutto le donne, licenziate più degli uomini. L'età pensionabile della donna è 50, ma moltissime donne sono state licenziate a 45 anni, talvolta perfino a 35. Esse hanno perso anche assistenza sanitaria e dei figli, pensione, sussidi per i funerali. Le impiegate delle imprese statali hanno diritto a 2 anni di congedo per gravidanza o allattamento. Spesso, le imprese spingono le donne incinte o con figli a lasciare il lavoro in cambio di una parte del salario.
La Legge sulla Protezione di Diritti e Interessi delle Donne vieta alcuni lavori alle donne durante ciclo mestruale, gravidanza e allattamento. In base alle leggi nazionali, il datore di lavoro non deve licenziare una donna incinta o in fase di allattamento, deve provvedere all'assicurazione per il parto, al congedo per le visite pre-parto, a 2 permessi al giorno per allattare, ad ambulatorio e asilo nido. Un sondaggio dell'agenzia Xinhua rivela che le donne in maternità sono pagate meno del dovuto e che molte imprese statali non coprono le spese del parto come prescritto dalla legge.
La disparità di trattamento è evidente anche dai salari. Da un rapporto del marzo 2003, emerge che il 20% delle donne (contro l'11% degli uomini) guadagna meno di 500 yuan (circa 60 euro) mensili; nella fascia che guadagna di più (5000 yuan mensili, pari a 600 euro), le donne sono solo il 14%.
La peggiore situazione è quella delle migranti, un terzo della forza lavoro volatile che dalle campagne emigra in città. A causa del basso livello d'istruzione e della giovane età, spesso non conoscono i propri diritti e accettano qualsiasi condizione di lavoro: più ore di lavoro intensivo, salari bassissimi, ambienti precari e insicuri. L'83% ha meno di 30 anni, contro il 55% della controparte maschile. Molte lavorano nelle nuove industrie del Fiume delle Perle (Guangdong), che non richiedono manodopera qualificata. In alcune di esse, il rapporto uomo-donna è di 1 a 9. Nel 2003, a Shenzhen, erano donne il 70% dei 5,5 milioni di lavoratori migranti; nel solo distretto industriale di Nanshan (Shenzhen), le donne erano l'80% dei lavoratori migranti e avevano in media 23 anni. In queste industrie, le donne lavorano a contatto con sostanze tossiche dannose. Se si ammalano vengono licenziate e, poiché non c'è una legislazione sui lavoratori migranti nelle città, esse non ricevono alcuna indennità. Se tentano di denunciare il loro caso, sono ignorate dalle autorità. Spesso, quando tornano nelle campagne e si ammalano, non si rendono neanche conto che la malattia è causata dall'ambiente malsano in cui lavoravano. (MR)