02/10/2024, 13.04
LIBANO-ISRAELE-ASIA
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Beirut: nella guerra di Israele a Hezbollah il dramma silenzioso dei lavoratori migranti

Non possono accedere ai rifugi già sovraffollati e sono esposti alle bombe dell’Idf all’aperto, senza riparo. Una parrocchia ha aperto le porte ma sono decine ogni giorno a invocare aiuto. In Libano vi sarebbero oltre 160mila migranti, il 65% dei quali sono donne, ma il dato potrebbe essere di gran lunga maggiore. Le promesse (finora vane) di rimpatrio del governo filippino. 

Beirut (AsiaNews) - Fra le pieghe (o le piaghe) della guerra lanciata da Israele in Libano contro Hezbollah, ma che finisce per colpire tutta la popolazione compresi i cristiani, si sta consumando un dramma relegato ai margini della cronaca e ignorato da governi e comunità internazionale: quello dei lavoratori migranti, soprattutto dai Paesi dell’Asia e dell’Africa, che da tempo vivono nel Paese dei cedri e che oggi si ritrovano sotto la pioggia di bombe dell’esercito dello Stato ebraico (Idf) senza un riparo, né prospettive certe di rimpatrio. Criticità confermate in queste ore da gruppi di immigrati che hanno affrontato l’ennesimo attacco dei caccia con la stella di David in strade e piazze, impossibilitati ad accedere ai ripari già presi di mira dagli sfollati interni, oltre 120mila ufficiali ma il numero potrebbe raggiungere il milione.  

Nel caos che sta investendo il Libano, in questi ultimi giorni i lavoratori migranti provenienti da Etiopia, Filippine, Sri Lanka e Sudan sono usciti dal cono d’ombra perenne in cui vivono per sfuggire ai bombardamenti. Fra quanti hanno provato a offrire riparo, aprendo le porte a tutti, vi è la parrocchia di san Giuseppe dei gesuiti a Beirut, in cui donne esauste e affamate si stringono attorno a un tavolo mentre altre aspettano un pasto, con occhi e orecchie rivolti a droni e missili israeliani. 

Ogni giorno ne arrivano di nuovi, a decine se non a centinaia dal sud del Libano, dai settori orientali e dalla periferia sud della capitale, area considerata roccaforte dei miliziani del Partito di Dio filo-iraniano e per questo colpita con maggiore intensità. “La chiesa, un tempo rifugio diurno per i migranti, è diventata un centro di accoglienza notturno da quando sono iniziati gli attacchi aerei israeliani” racconta ad al-Monitor fratel Michael Petro del Jesuit Refugee Service (Jrs). 

“Una famiglia della nostra chiesa è arrivata qui e ha chiesto di poter rimanere. Abbiamo detto sì, e la mattina dopo sono arrivate 30 persone, e poi altre 50” prosegue nel racconto il missionario americano. “Il primo giorno abbiamo chiamato tutti i rifugi del Paese. Non abbiamo trovato posto, o perché erano pieni o perché ci hanno detto che non accettano migranti”. Tuttavia, osserva l’attivista libanese Dea Hage Chahine, anche i migranti “hanno bisogno di aiuto”. “Sono invisibili, come cittadini di terza classe” aggiunge, spiegando che “i lavoratori migranti spesso non hanno nemmeno il loro passaporto o i loro diritti”.

Kumiri Parara, 48enne dello Sri Lanka, è arrivata giorni fa con il figlio di 12 anni, fuggendo da Sidone, nel sud, sotto le bombe. La donna vive in Libano da 20 anni ed è stata sposata con un palestinese prima di divorziare, trovando poi lavoro come collaboratrice domestica. Un impiego comune fra le immigrate, molte delle quali vengono dall’isola nel tentativo di guadagnare somme di denaro che permettano anche di sostenere parenti e familiari rimasti in patria. Kumiri racconta che anche i suoi datori di lavoro sono fuggiti, ma di loro non ha più alcuna notizia.

Secondo dati relativi al 2023 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), in Libano vi sarebbero oltre 160mila migranti, il 65% dei quali sono donne. In realtà il numero potrebbe essere di gran lunga maggiore, anche se molti restano nel sommerso perché privi di documenti o si trovano in una condizione di limbo legale che ne comporterebbe l’espulsione se individuati. Inoltre, la grande maggioranza si trova nel Paese dei cedri nell’ambito del cosiddetto sistema della “kafala”, un processo di sponsorizzazione che regola la presenza di lavoratori stranieri ma che consente numerosi abusi e violazioni dei diritti umani da parte dei “padroni”.

Fra le poche voci che hanno voluto affrontare il tema della condizione, e della situazione di emergenza, in cui versano vi è la ong Migrante International, che ha promosso il 29 settembre scorso un incontro online rivolto in particolare alla comunità filippina in Libano. Sono oltre 11mila persone che, da giorni, attendono di poter rimpatriare come promesso dal governo di Manila ma che, ancora oggi, si trovano in una situazione di limbo impossibilitati a fuggire. Una evacuazione che sarebbe dovuta iniziare subito dopo la tanto temuta invasione di terra dell’esercito israeliano ma che, nei fatti, resta ancora una questione irrisolta. 

Durante la conferenza i lavoratori hanno espresso frustrazione per quella che ritengono una risposta lenta da parte del governo filippino. Joanna Concepcion, presidente di Migrante International, sottolinea come non si parli “delle difficoltà o delle lotte che i nostri lavoratori stanno attraversando, motivo per cui esitano o non sono in grado di rimpatriare, né si condivide la portata della situazione”. Rachel Kiocho, onicotecnica a Dahieh, ha descritto una situazione allarmante, in una zona investita dai bombardamenti: il suo datore di lavoro è fuggito all’improvviso, abbandonando lei e altre persone. “È una zona in qualche modo sicura, quindi mi sento tranquilla - spiega - ma non so quanto durerà, dato che ci sono notizie di un imminente attacco di terra”. “Chiedo di salvarci e di aiutarci. Molti di noi - aggiunge - vogliono tornare a casa, ma sono in difficoltà con il processo”.

Christine Lao, anch’essa migrante, ha raccontato come il conflitto in corso abbia creato un’atmosfera terrificante per chi si trova ancora in Libano. “Dopo essere stati qui per tanto tempo, non avremmo mai pensato di tornare a casa, ma ora è diventata una questione di vita o di morte. Non possiamo più trattenerci. Abbiamo con noi un bambino che continua a chiedere ‘moriremo quando ci saranno i bombardamenti?’”. A seguire la donna ha condiviso la frustrante esperienza nel processo di rimpatrio, spiegando che l’ambasciata si è limitata a inviare link per compilare i moduli, ma la risposta è stata di aspettare 20 giorni in attesa di aggiornamento. In realtà è trascorso più di un mese senza alcun progresso. Il ritardo sarebbe dovuto al loro status di lavoratori senza documenti (Tnt), ma Lao si è chiesta come sia possibile ottenere aggiornamenti (o carteggi) se l’ufficio immigrazione rimane chiuso per la guerra. Secondo il Dipartimento dei lavoratori migranti (Dmw), il rimpatrio di oltre una dozzina di filippini in Libano (un numero minimo) colpiti dal conflitto è stata riprogrammata al 3 ottobre. Il rientro in patria era previsto per il 26 settembre scorso.

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