11/05/2022, 12.32
AFGHANISTAN
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Anche senza riconoscimento, il governo talebano è destinato a restare

di Alessandra De Poli

Il futuro dell'Emirato islamico dipenderà dalla capacità dei talebani di pacificare il Paese, sostiene il professor Diego Abenante. La resistenza non sembra avere possibilità e un conflitto civile non gioverebbe alla popolazione. Daesh continua a essere motivo di grande preoccupazione. L'unica speranza è che la linea di governo meno dura prevalga sugli elementi radicali del gruppo Haqqani.

Milano (AsiaNews) - È una storia che si ripete quella dell’Afghanistan: i talebani hanno spazzato via i diritti delle donne, l’Emirato islamico non gode del riconoscimento internazionale di alcun Paese, è sempre più isolato sulla scena internazionale, metà della popolazione - circa 20 milioni di persone - soffre la fame e gli aiuti concessi dalla comunità internazionale porteranno gran poco sollievo.

In base agli accordi di Doha siglati nel febbraio 2020 tra l’amministrazione Trump e i talebani, gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dal Paese e in cambio gli “studenti coranici” avrebbero garantito di non sostenere il terrorismo islamista in Afghanistan.

“Gli impegni sono stati rispettati”, spiega ad AsiaNews il professor Diego Abenante. La tenuta del nuovo Emirato ora dipenderà dalla capacità dei talebani di pacificare il Paese: “Come durante il primo regime sorto nel 1996, la riconquista dei talebani è stata favorita dalla stanchezza della società afghana nei confronti di una guerra lunghissima. Se manterranno questa promessa - e finora effettivamente c’è stata una riduzione della violenza nel Paese - il loro governo potrà durare nel tempo”, prosegue il docente di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università di Trieste.

“Se invece dovessero fallire è possibile si generi una rivolta generalizzata. Ci sono sacche di resistenza che si erano già materializzate nei giorni successivi alla presa del potere, ma non sono mai diventate movimenti nazionali, ed è improbabile che lo diventino nel prossimo futuro”, spiega il docente. Con pochi mezzi e senza il sostegno della comunità internazionale la resistenza non ha possibilità di successo. Ma soprattutto a nessuno gioverebbe un altro conflitto civile. 

Gli operatori umanitari ammettono di avere la possibilità di raggiungere province prima inaccessibili, ma i talebani, nonostante le loro dichiarazioni, oltre a non essere in grado di governare, non hanno il controllo del Paese: gli attacchi di Daesh (lo Stato islamico, noto in Afghanistan con il nome di IS-K, dove “K” indica la regione storica del Khorasan) non si sono mai fermati. “Questo è un dato che non deve stupire: per ragioni storiche e geografiche nessun governo ha mai dominato tutto il territorio afghano”, continua l’esperto. “Al contrario, in altri periodi era quasi sempre la società a esercitare un controllo su uno Stato debole. Se in passato questo fattore giocava a favore dei talebani, che hanno da sempre tentato di minare l’autorità di Kabul, ora sono loro i primi a incontrare questa difficoltà”. 

Nonostante una prima iniziale convergenza tra il 2014 e il 2015, quando i militanti dello Stato islamico hanno cominciato a mettere radici in Afghanistan, i due movimenti islamisti sono arrivati alla rottura, “arricchitasi nel tempo di elementi di carattere religioso e politico: Daesh è profondamente anti-sufi e anti-sciita, come dimostrato ancora una volta dagli attentati più recenti. Mentre i talebani, anche se appartengono alla matrice religiosa deobandi, non vogliono la divisione della società, perché non possono governare se questa è spaccata. Dopo l’esperienza di governo degli anni ‘90 hanno capito di avere bisogno di un Paese unito per governare”, spiega ancora il professore.

“Se l’agenda dello Stato islamico è universalistica perché considera come unica prospettiva possibile la ricreazione del Califfato, quella talebana è un’agenda nazionale e su questo gli ex studenti coranici sono da sempre stati molto coerenti: non hanno mai voluto estendere la rivoluzione al di fuori dei confini nazionali e non vogliono fare la guerra contro l’Occidente, tant’è che hanno fatto un accordo con gli Usa”. I quali ora si trovano in una situazione molto ambigua “che ricalca quella che avevano già sperimentato nel 1994-1995 prima della nascita del primo governo talebano”, fa notare Abenante.

Dalla riconquista di Kabul “gli Stati Uniti si trovano davanti a due opzioni: disinteressarsi dell’Afghanistan e lasciare che la popolazione subisca il regime oppure intervenire. Finora ci sono stati tentativi di trasferimento di denaro alle agenzie umanitarie internazionali, ma è stato reso chiaro che la legittimazione al loro governo non sarà concessa finché non ci sarà un’apertura sul piano dei diritti umani e non verrà migliorata la condizione delle donne", commenta l'accademico. Un'azione che dopo la chiusura delle scuole secondarie femminili, l’imposizione del burqa e le restrizioni ai movimenti è evidente però che i talebani non hanno intenzione di fare. “Un fattore che a loro non interessa poi così tanto perché da una parte pensano che l’Occidente invierà in ogni caso aiuti alla popolazione mentre loro possono portare avanti la loro agenda islamica”. 

Il timore degli Usa è che a questo punto l’Afghanistan finisca sotto l’influenza cinese, a cui i diritti umani non interessano così tanto: “Pechino a marzo ha promosso gli incontri della cosiddetta ‘troika estesa’, formata dagli attori regionali: Cina, Russia, Pakistan, Iran, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, ma l’invito è stato esteso anche agli Stati Uniti”. 

L’interesse primario della Cina resta tuttavia sul piano economico: “Pechino e Mosca non vogliono in nessun modo un’espansione del revival islamico, ma più di tutto non vogliono che gli scontri al confine con il Pakistan e i talebani pakistani sulla Durand Line mettano in pericolo gli investimenti cinesi fatti attraverso il China Pakistan Economic Corridor, un enorme progetto infrastrutturale che riveste un interesse strategico importante perché permetterà alla Cina di raggiungere il Mar Arabico". 

Solo una sembra essere allora la speranza per la popolazione afghana: “I talebani non sono un movimento monolitico, come dimostrato dalle lungaggini nel nominare i ministri e dal fatto che il governo sia ancora provvisorio. Se la fazione meno dura dovesse prevalere sugli elementi più radicali della rete Haqqani ci potrebbe essere un’apertura e una sorta di collaborazione con altri Paesi”. Opzione che, tuttavia, sembra essere ancora lontana.

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