Ai Weiwei e la morte dello stato di diritto in Cina
Questo modo di fare contro una delle più note figure culturali del Paese richiama alla mente i primi passi della Rivoluzione culturale, quando il regime maoista iniziò a rimuovere dalla scena gli artisti, gli scrittori e gli intellettuali ideologicamente sconvenienti per un puro desiderio, senza alcuna pretesa di copertura legale e senza rispetto per le procedure.
Nel corso della lunga marcia verso lo stato di diritto che la Cina ha intrapreso a tentativi sin dalla fine dell’era maoista, questo ritorno alla piena illegalità è sconvolgente persino per un dissidente di lungo corso come me. Se le autorità possono arrestare una figura di quella statura in maniera arbitraria, senza comunicarne il destino (dato che non vogliono che la famiglia o il suo legale possano aiutarlo), allora in Cina non esiste nessuno che sia salvo dalle ansie e dalle paturnie di chi governa.
Questo episodio rivela non soltanto l’essenza di un sistema dove l’individuo non ha diritti, ma anche l’evoluzione di un nuovo tipo di repressione: il perverso “diritto attraverso la legge” invece dello “stato di diritto”. In altre parole, l’applicazione di buchi legali per violare i diritti umani, e non proteggerli.
La “residenza sotto sorveglianza” – uno strumento in cui una persona viene arrestata senza alcuna copertura di diritto – è uno di questi buchi nel sistema legale. Facciamo un piccolo passo indietro per spiegare l’evoluzione di questo strumento del “diritto attraverso la legge”. Nella primavera del 1994, il Partito comunista cinese stava affrontando alcune sanzioni imposte dagli Stati Uniti. A quel tempo, l’amministrazione Clinton si stava preparando ad alleggerire queste sanzioni scollegando il commercio dai diritti umani, una decisione che incontrava la forte opposizione del Congresso.
L’opinione dei dissidenti cinesi era la chiave di volta per quella situazione. Il presidente Jiang Zemin mandò la sua polizia ad arrestarmi per aprire un negoziato. Avevano preparato persino alcune piccole migliorie per i diritti umani e lo stato di diritto in Cina, un premio da scambiare con il mio silenzio sulla questione di scollegare diritti umani e commercio. All’inizio non cedetti. Ma, dopo, raggiungemmo un compromesso: io sarei rimasto in silenzio in cambio della scarcerazione di alcuni dissidenti e la possibilità di esercitare il diritto di espressione in ambito sindacale.
Questo accordo si scontrò con una fortissima resistenza da parte di alcune fazioni del Partito comunista che si opponevano all’iniziativa di Jiang. Quindi venni arrestato di nuovo, con l’ordine di essere interrogato. Tenuto per due giorni in isolamento completo, protestai senza successo. Dissi ai miei carcerieri: “Innanzi tutto, secondo il diritto di procedura penale cinese, l’ordine di essere interrogato significa semplicemente che potete parlare con me; e voi avete violato la legge, interrogandomi per più di 24 ore. In secondo luogo gli interrogatori non possono essere più di tre di seguito, e questo è l’ultimo. Se non potete produrre un documento che vi dia il diritto di arrestarmi o di fermarmi secondo la legge, allora mi dispiace ma dovete liberarmi”.
Preoccupati dall’impatto che un arresto illegale avrebbe avuto sull’accordo, venni rassicurato: “Non ti preoccupare, andiamo a prendere i documenti dal Procuratore e te li portiamo entro domani”. Il giorno dopo chiesi: “Avete i documenti? Altrimenti, sono pronto a tornare a casa”. Senza esitare, un vecchio poliziotto mi disse: “Sì li abbiamo: eccoli qui. Non te ne puoi andare”. Dopo aver visto il documento mi misi a ridere. Era un certificato di “residenza sotto sorveglianza”.
Dissi al poliziotto: “Senza prove, non potete ottenere neanche un avviso di garanzia dal Procuratore”. Lui rispose che quel documento – che permette la detenzione continua senza accuse formali – era stato scritto dall’Ufficio di pubblica sicurezza e che questo bastava. Ma io risposi: “Questa è una detenzione illegale. Cercherò un avvocato e vi denuncerò”. Avemmo uno scontro, e poi le autorità che avevano negoziato con me chiesero di parlarmi in privato.
Mi dissero che la situazione all’interno della leadership comunista era molto complicata. La fazione contraria a Jiang cercava problemi e, se il presidente non avesse portato a casa l’accordo (o se ci fossero state proteste inaspettate da parte mia) si sarebbero rotti i rapporti con il presidente Clinton. Mi dissero che, fuori dalla mia prigione, l’accordo era già in vigore e che erano stati rilasciati coloro di cui avevo chiesto la scarcerazione. Persone come Wang Dan erano ancora attive, e le autorità non li arrestavano nonostante le pressioni ricevute.
Detto questo, speravano che non avrei opposto resistenza alla mia detenzione, sarei stato paziente e avrei concesso per il bene della patria un poco di “faccia” a Jiang Zemin. Valutai i pro e i contro, e decisi di accettare il loro documento di “residenza sotto sorveglianza”, anche se mi riservai il diritto di denunciarli in un secondo momento. Dopo questa decisione, Bill Clinton riuscì a scollegare il commercio dai diritti umani.
Una volta condotto davanti a una corte di giustizia, venne fuori che neanche loro riconoscevano la legalità della mia detenzione, un atto illegale secondo la legge di procedura penale: questa infatti richiedeva l’approvazione della corte e del Procuratore, per limitare la libertà di un individuo. Ma subito dopo decisero che arrestare una persona senza accuse, in base a un documento di “residenza sotto sorveglianza”, era un atto legale. Da quel momento quella procedura divenne “legale”.
Oggi è divenuta una sorta di routine, uno strumento con cui la pubblica sicurezza decide in maniera arbitraria di limitare la libertà personale. Ed ecco che la legge è divenuta uno strumento per servire lo Stato autoritario e non l’individuo.
Il caso di Ai Weiwei rivela una volta di più al mondo quale sia l’essenza dello Stato cinese. Questo è il sistema legale del Paese, oggi: il “diritto attraverso la legge” per le autorità, invece dello “stato di diritto” per il popolo.