Acqua e dighe, il nuovo terreno di guerra della Cina
di Brahma Chellaney
Pechino ignora le convenzioni internazionali e gestisce in maniera dissoluta anche i grandi fiumi internazionali. Costruisce dighe provocando la rabbia delle minoranze e quella delle nazioni confinanti, che si vedono privare di un bene primario. Va fermata, prima che diventi la padrona del rubinetto dell’Asia intera. L’analisi e la denuncia di un docente indiano.
New Delhi (AsiaNews) – La Cina ha provocato l’allarme internazionale grazie al suo monopolio virtuale delle “terre rare” usate come strumento per il commercio e per aver messo in stallo gli sforzi multilaterali tesi a risolvere le dispute relative al Mar cinese meridionale. Fra i suoi confinanti e vicini, cresce però la preoccupazione sul fatto che la Cina stia cercando di rendere anche l’acqua un’arma politica.
Al centro dell’Asia, la Cina è la fonte da cui deriva il maggior numero di fiumi al mondo diretti verso altre nazioni (questi spesso attraversano i confini nazionali): dalla Russia all’India, dal Kazakhstan all’Indocina. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’assorbimento delle terre su cui vivevano diverse minoranze etniche, e che ora formano il 60 % della massa di terreno cinese: è da qui che partono i maggiori fiumi internazionali.
Fino ad oggi, trovare un accordo sulla gestione delle acque o sulla condivisione delle stesse – o l’accettazione di meccanismi istituzionali tesi alla cooperazione – è stato impossibile per ogni bacino comune. Al contrario, la costruzione di enormi dighe all’origine di fiumi enormi come il Mekong, il Brahmaputra o l’Amur dimostra come la Cina preferisca azioni unilaterali e pericolose, per la preoccupazione delle nazioni che le subiscono.
Pechino ha già completato la diga più grande del mondo (quella delle Tre Gole) e possiede nel suo territorio un numero di dighe maggiore rispetto a tutte quelle del resto del mondo messe insieme. È passata dal gestire i fiumi interni a quelli internazionali, e dal costruire grandi dighe al costruire dighe enormi. Fra le più recenti c’è quella di Xiaowan, sul Mekong: fornisce 4.200 megawatt ed è più alta della Torre Eiffel.
Fra le nuove dighe che verranno costruite ce n’è una sul Brahmaputra all’altezza di Metog (in cinese, Motuo), che dovrebbe raddoppiare per ampiezza quella delle Tre Gole, da 18.300 megawatt: vedrà la luce praticamente su quelle terre di confine ancora disputate con l’India. Le conseguenze di una costruzione così frenetica sono già chiare.
Prima fra tutte, la Cina ha delle dispute relativamente alle acque con quasi tutti i suoi vicini: da Mosca a Delhi fino agli Stati clienti come Corea del Nord e la Birmania. Al secondo posto di questa lista di conseguenze ci sono le tensioni che ha creato la decisione di portare avanti mega-progetti idrici nei territori dove vivono le minoranze etniche. La tundra tibetana e quella di Xinjiang e Mongolia interna sono squassate dalle proteste contro il dominio cinese e la requisizione forzata delle terre. Al terzo e ultimo posto c’è il rischio che il degrado imposto dalla Cina ai propri fiumi possa replicarsi in quelli internazionali.
Inoltre, come a volersi auto-definire l’egemone dell’acqua a livello mondiale, la Cina è anche il maggior costruttore di dighe a livello internazionale. Dal Kashmir pakistano agli Stati turbolenti dei Kachin e degli Shan, in Birmania, la Cina costruisce dighe in tutti i territori contestati o contesi dalle minoranze, nonostante l’opposizione delle popolazioni locali. Proprio la costruzione di un bacino idroelettrico ha riacceso gli scontri in Birmania: l’esercito indipendentista dei Kachin e l’esercito nazionale hanno rotto un cessate-il-fuoco che durava da 17 anni.
Per i Paesi che ricevono l’acqua, una delle preoccupazioni maggiori è l’opacità di Pechino rispetto a questi progetti. Di solito la Cina inizia in maniera molto tranquilla, quasi in maniera furtiva, e poi presenta un progetto: questo è inalterabile, e porta enormi benefici per il controllo delle inondazioni. Ma quel che è peggio è che, nonostante ci siano i trattati sulle acque fra gli Stati dell’Asia meridionale e sud-orientale, Pechino rigetta il concetto di “accordo per la condivisione dell’acqua”. Ed è uno dei 3 Stati che ha votato contro la Convenzione delle Nazioni Unite che legifera sulla gestione condivisa dei corsi d’acqua internazionali.
Alla luce di tutto questo, l’acqua sta diventato sempre più velocemente causa di competizione e discordia fra le nazioni dell’Asia: in questo continente la percentuale di acqua fresca per persona è meno della metà rispetto alla media globale. La crescente richiesta (e mancanza) di acqua minaccia la rapida crescita economica dell’Asia e porta rischi per gli investitori non minori dei debiti senza tasso di interesse, le bolle speculative e la corruzione politica.
Dato che tiene la mano sul rubinetto, la Cina ha un enorme potenziale di influenza sui suoi vicini. E il fatto che questa nazione, che controlla i maggiori fiumi asiatici, sia anche una crescente super-potenza che ha una fede cieca nella propria capacità muscolari non fa altro che aumentare il bisogno di un intervento da parte della comunità internazionale. Che deve fermare Pechino nella sua corsa all’appropriazione delle acque condivise e la deve convincere ad accettare la cooperazione internazionale.
Al centro dell’Asia, la Cina è la fonte da cui deriva il maggior numero di fiumi al mondo diretti verso altre nazioni (questi spesso attraversano i confini nazionali): dalla Russia all’India, dal Kazakhstan all’Indocina. Questo risultato è stato ottenuto grazie all’assorbimento delle terre su cui vivevano diverse minoranze etniche, e che ora formano il 60 % della massa di terreno cinese: è da qui che partono i maggiori fiumi internazionali.
Fino ad oggi, trovare un accordo sulla gestione delle acque o sulla condivisione delle stesse – o l’accettazione di meccanismi istituzionali tesi alla cooperazione – è stato impossibile per ogni bacino comune. Al contrario, la costruzione di enormi dighe all’origine di fiumi enormi come il Mekong, il Brahmaputra o l’Amur dimostra come la Cina preferisca azioni unilaterali e pericolose, per la preoccupazione delle nazioni che le subiscono.
Pechino ha già completato la diga più grande del mondo (quella delle Tre Gole) e possiede nel suo territorio un numero di dighe maggiore rispetto a tutte quelle del resto del mondo messe insieme. È passata dal gestire i fiumi interni a quelli internazionali, e dal costruire grandi dighe al costruire dighe enormi. Fra le più recenti c’è quella di Xiaowan, sul Mekong: fornisce 4.200 megawatt ed è più alta della Torre Eiffel.
Fra le nuove dighe che verranno costruite ce n’è una sul Brahmaputra all’altezza di Metog (in cinese, Motuo), che dovrebbe raddoppiare per ampiezza quella delle Tre Gole, da 18.300 megawatt: vedrà la luce praticamente su quelle terre di confine ancora disputate con l’India. Le conseguenze di una costruzione così frenetica sono già chiare.
Prima fra tutte, la Cina ha delle dispute relativamente alle acque con quasi tutti i suoi vicini: da Mosca a Delhi fino agli Stati clienti come Corea del Nord e la Birmania. Al secondo posto di questa lista di conseguenze ci sono le tensioni che ha creato la decisione di portare avanti mega-progetti idrici nei territori dove vivono le minoranze etniche. La tundra tibetana e quella di Xinjiang e Mongolia interna sono squassate dalle proteste contro il dominio cinese e la requisizione forzata delle terre. Al terzo e ultimo posto c’è il rischio che il degrado imposto dalla Cina ai propri fiumi possa replicarsi in quelli internazionali.
Inoltre, come a volersi auto-definire l’egemone dell’acqua a livello mondiale, la Cina è anche il maggior costruttore di dighe a livello internazionale. Dal Kashmir pakistano agli Stati turbolenti dei Kachin e degli Shan, in Birmania, la Cina costruisce dighe in tutti i territori contestati o contesi dalle minoranze, nonostante l’opposizione delle popolazioni locali. Proprio la costruzione di un bacino idroelettrico ha riacceso gli scontri in Birmania: l’esercito indipendentista dei Kachin e l’esercito nazionale hanno rotto un cessate-il-fuoco che durava da 17 anni.
Per i Paesi che ricevono l’acqua, una delle preoccupazioni maggiori è l’opacità di Pechino rispetto a questi progetti. Di solito la Cina inizia in maniera molto tranquilla, quasi in maniera furtiva, e poi presenta un progetto: questo è inalterabile, e porta enormi benefici per il controllo delle inondazioni. Ma quel che è peggio è che, nonostante ci siano i trattati sulle acque fra gli Stati dell’Asia meridionale e sud-orientale, Pechino rigetta il concetto di “accordo per la condivisione dell’acqua”. Ed è uno dei 3 Stati che ha votato contro la Convenzione delle Nazioni Unite che legifera sulla gestione condivisa dei corsi d’acqua internazionali.
Alla luce di tutto questo, l’acqua sta diventato sempre più velocemente causa di competizione e discordia fra le nazioni dell’Asia: in questo continente la percentuale di acqua fresca per persona è meno della metà rispetto alla media globale. La crescente richiesta (e mancanza) di acqua minaccia la rapida crescita economica dell’Asia e porta rischi per gli investitori non minori dei debiti senza tasso di interesse, le bolle speculative e la corruzione politica.
Dato che tiene la mano sul rubinetto, la Cina ha un enorme potenziale di influenza sui suoi vicini. E il fatto che questa nazione, che controlla i maggiori fiumi asiatici, sia anche una crescente super-potenza che ha una fede cieca nella propria capacità muscolari non fa altro che aumentare il bisogno di un intervento da parte della comunità internazionale. Che deve fermare Pechino nella sua corsa all’appropriazione delle acque condivise e la deve convincere ad accettare la cooperazione internazionale.
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