Aboliti i contingenti, la Cina impone dazi ai suoi prodotti tessili
Milano (AsiaNews) - Dal 1° gennaio sono stati aboliti i cosiddetti contingenti che stabilivano un limite massimo per i quantitativi che i produttori cinesi potevano esportare nel resto del mondo, ma lo stesso governo cinese ha imposto dei dazi alle proprie esportazioni tessili. Per molti Paesi colpiti dallo Tsunami del 26 dicembre, come ad esempio lo Sri Lanka e l'Indonesia, che dipendono, oltre che dal turismo, anche dalle esportazioni tessili, le conseguenze dell'abolizione dei contingenti potrebbero essere la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Per limitare questa metaforica alluvione di esportazioni che rischia di mettere fuori gioco molti produttori soprattutto di Paesi del terzo mondo, il governo cinese ha deciso di introdurre o aumentare le tasse sulle esportazioni. Ma certo non per spirito filantropico.
Il sistema dei contingenti (in inglese the quota system) è quanto di più antitetico si possa immaginare rispetto agli obiettivi di libero scambio internazionale che sono stati fissati da innumerevoli trattati internazionali in questi ultimi decenni. Rispetto al sistema dei dazi doganali il contingentamento costituisce infatti un limite molto più drastico perché limita il numero fisico di pezzi di merce di una specifica origine che potevano essere importati da un determinato Paese. Viceversa un dazio doganale limita le esportazioni solo perché rende le importazioni da un determinato Paese meno concorrenziali in relazione all'imposta dovuta.
Con il generale abbassamento delle aliquote, oggi attorno al 5 - 10 % del valore, i dazi doganali non costituiscono più una reale barriera protettiva. D'altronde, il dazio in origine fu introdotto solo a fini fiscali ed è in fin dei conti una tassa che grava sull'esportatore estero, ancor più che sul consumatore nazionale.
In verità, tutto il sistema dei contingenti è sempre stato tradizionalmente punteggiato da non pochi scandali ed ipocrisie sia grandi che piccoli. Il fatto è però che i produttori cinesi risultano ormai talmente concorrenziali, non solo rispetto all'Europa ed agli Stati Uniti ma anche alla maggior parte dei Paesi in via di sviluppo ed in particolar modo di quelli asiatici, da detenere di fatto ormai un monopolio internazionale nelle produzioni tessili. Dati i pesanti risvolti in termini di perdita di posti di lavoro in Paesi terzi, i governanti cinesi hanno dovuto fronteggiare numerose ed aspre critiche.
Analizzando le ragioni della competitività dei prodotti tessili cinesi, tali critiche finiscono invariabilmente per colpire il modello sociale e politico della Cina attuale. Ad esempio, le associazioni industriali di molti Paesi hanno raccolto documentazione che comproverebbe il caso di prodotti esportati dalla Cina a meno del valore della materia prima che la Cina stessa importa.
Imponendo dei dazi alle esportazioni, il governo cinese coglie quindi un obiettivo multiplo: sottrae il proprio operato a più approfonditi dibattiti, mostra sensibilità alle problematiche di Paesi terzi ed evita così possibili ritorsioni economiche, recupera quel gettito fiscale che fa molta fatica a prelevare nelle transazioni interne. Soprattutto però rimane arbitro di un settore chiave dell'economia internazionale, potendo variare a piacimento il flusso delle esportazioni mediante l'incremento o la riduzione dei dazi e delle licenze. Una contraddizione ovviamente emerge: i liberoscambisti avevano propugnato la riduzione dei dazi doganali come strumento per incrementare la concorrenza e ridurre i monopoli nazionali. Viceversa, in nome del libero mercato, la Cina consolida un monopolio mondiale ed una commissione di funzionari del regime comunista di Pechino regola di fatto una delle più rilevanti attività manifatturiere del pianeta.