Xinjiang un anno dopo, fra poliziotti e calma innaturale
Urumqi (AsiaNews/Agenzie) – A un anno dal massacro degli uighuri nella capitale Urumqi, la situazione nello Xinjiang è di calma innaturale. Il governo cinese, per prevenire nuovi scontri o commemorazioni, ha infatti blindato la metropoli con più di 40.000 telecamere e migliaia di agenti di polizia, fatti venire anche dalle province confinanti.
Negli scontri di un anno fa sono morte almeno 200 persone, mentre altre 1700 sono state ferite. Non è chiaro il numero degli arrestati, che secondo la dissidenza uighura si contano in decine di migliaia. Il 5 luglio del 2009, dopo una manifestazione dispersa dalla polizia, gruppi di giovani uighuri hanno attaccato i quartieri degli immigrati cinesi di etnia han, quella di maggioranza nel Paese. Il giorno dopo, gruppi di cinesi hanno effettuato delle rappresaglie in quelli che sono stati gli scontri interetnici più gravi ad essersi verificati in Cina negli ultimi decenni.
Lo scorso 3 luglio, Amnesty International ha contestato la versione dei fatti del governo cinese, affermando che “non è chiaro quante persone siano state uccise e da chi”. In processi che si sono tenuti a porte chiuse, almeno 198 persone sono state condannate per le violenze, 26 delle quali alla pena capitale. Almeno nove delle sentenze di morte sono già state eseguite.
Il leader della resistenza uighura Rebiya Kadeer, in esilio negli Stati Uniti dopo aver evitato la condanna a morte, denuncia: “Il mondo libero sa quello che succede nello Xinjiang, ma non fa nulla per non irritare Pechino”. Residenti di Urumqi riferiscono che le strade della città sono “insolitamente calme” e che i cittadini di etnia uighura sono stati invitati dalle autorità a non lasciare le loro abitazioni.