Xinjiang, altri cinque uiguri condannati a morte
Urumqi (AsiaNews/Agenzie) – Una Corte di giustizia popolare della provincia nord-occidentale dello Xinjiang ha condannato a morte ieri cinque uiguri, con l’accusa di aver commesso alcuni omicidi durante le proteste del luglio scorso. Altri due imputati sono stati condannati all’ergastolo, mentre gli ultimi sei chiamati a giudizio hanno subito condanne al carcere di varia entità. Nel novembre del 2009 altre nove persone sono state uccise dalla giustizia cinese con le stesse accuse.
La Xinhua dice oggi che icinque condannati a morte sono Memeteli Islam, Mamattursun Elmu, Memeteli Abburakm, Kushiman Kurban e Helil Sadir. Dai nomi, sembrano essere tutti uiguri di religione musulmana. Rebiya Kadeer, leader del Congresso mondiale degli uiguri che vive in esilio negli Stati Uniti, ha subito condannato la decisione.
Da Washington, dove si è rifugiata dopo sei anni di carcere a Urumqi, la Kadeer ha dichiarato: “Il governo cinese ha ignorato ogni standard legale di processo. Siamo in presenza di una campagna intimidatoria, che cerca di ridurre al silenzio la popolazione uigura tramite esecuzioni e arresti di massa. Temo che questi cinque nuovi condannati subiscano la stessa sorte dei morti di novembre: uccisi mentre il mondo rimane in silenzio”.
Il 5 luglio del 2009 alcune manifestazioni pacifiche di protesta di uiguri a Urumqi, nate dalla decisione presa da Pechino di chiudere con la forza il bazar musulmano, sono degenerate in scontri etnici fra la popolazione musulmana e i cinesi han. Nel corso degli scontri sono morte 200 persone, e altre 1.600 hanno riportato ferite di vario tipo. Polizia ed esercito hanno represso le tensioni facendo migliaia di arresti.
Gli uiguri accusano gli han di averli colonizzati, avendo occupato tutte le leve nel commercio e nell’amministrazione pubblica. Da decenni la popolazione uiguri soffre sotto un pesante controllo militare: nella provincia, ricca di risorse energetiche e molto importante dal punto di vista strategico, si è accresciuta la presenza dei militari. Questi impediscono alla popolazione di godere dei diritti civili e della libertà religiosa, anche in nome della lotta al terrorismo islamico.