22/03/2010, 00.00
ISRAELE–USA–IRAN
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Washington e Tel Aviv: divisi sulle colonie; uniti sull’Iran

di Arieh Cohen
La linea della durezza ha premiato Netanyahu. Gli Stati Uniti fanno marcia indietro sugli insediamenti israeliani nei Territori occupati. Sempre meno possibile uno Stato palestinese. Vi saranno al massimo dei “Bantustan”, come le riserve dei neri in Sudafrica. L’amministrazione Obama rimanda per ora una resa dei conti con Israele per trovare una via comune contro l’Iran e il nucleare di Teheran.
Tel Aviv (AsiaNews) – All’apertura dell’incontro settimanale di gabinetto ieri, il primo ministro israeliano ha dichiarato che per Israele costruire a Gerusalemme est [in territorio palestinese occupato, a favore dei coloni israeliani] è come costruire a Tel Aviv. Quasi nello stesso tempo, il suo ufficio ha dichiarato alla stampa che egli è stato invitato a incontrare il presidente degli Stati Uniti per domani 23 marzo.
 
È finita così la crisi nelle relazioni fra Israele e Stati Uniti, cominciata con l’annuncio del governo israeliano di costruire a Gerusalemme est altri 1600 appartamenti per i coloni, proprio mentre si stava per ricevere il vice-presidente Usa, alla vigilia dei “dialoghi delle prossimità” con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), voluti da Washington come preludio a rinnovati negoziati di pace in larga scala fra Israele e palestinesi.
 
Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha sempre sostenuto che i negoziati sono inutili se i coloni israeliani continuano a ingoiare e consumare il territorio palestinese, violando la legge internazionale e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Egli aveva chiesto agli Usa di sostenere la loro posizione, costringendo Israele a cessare e desistere dalle attività di colonizzazione. Nel giugno scorso il presidente Obama ha annunciato con forza questa posizione nel suo discorso all’islam e al mondo arabo dal Cairo. Ma qualche mese dopo, la sua amministrazione era già tornata indietro, esaltando come sufficienti gli avvenuti 10 mesi di “congelamento delle colonie” (piuttosto fittizio). Sulla base di questo “congelamento” temporaneo e irreale, l’amministrazione ha convinto Abu Mazen ad aderire a “negoziati indiretti”, mediati dall’ex senatore George Mitchell. Proprio mentre il vice presidente Biden era a Gerusalemme per festeggiare questo risultato, l’annuncio di una nuova e massiccia iniziativa di colonizzazione ha reso tutto una presa in giro.
 
Al’inizio la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno lanciato un’offensiva a tutto campo per condannare l’iniziativa israeliana. In modo esplicito, il segretario di Stato Hillary Clinton ha domandato al premier Netanyahu di cancellare la decisione sui nuovi insediamenti a Gerusalemme est, per farsi perdonare l’insulto al presidente Usa e alla sua amministrazione. Ma, proprio come è avvenuto con il discorso di Obama nel giugno scorso, la decisione americana si è subito dissolta. Netanyahu ha solo chiesto scusa per la “scelta del tempo” in cui è avvenuto l’annuncio – in coincidenza con la visita del vice-presidente Biden – ma è rimasto sulla sua posizione e ha dichiarato pubblicamente che gli insediamenti a Gerusalemme est continueranno senza sosta. Egli ha detto questo alla Knesset, il parlamento israeliano, la scorsa settimana e lo ha confermato ieri alla riunione di gabinetto. E si è guadagnato l’elogio della Clinton e un invito ad incontrare il presidente Obama.
 
 
Netanyahu aveva sempre tranquillizzato tutti coloro che si mostravano preoccupati che l’ira degli Usa potesse mettere in pericolo i supremi interessi nazionali di Israele che risiedono in una stretta amicizia e cooperazione con gli Stati Uniti. Dai tempi del suo primo governo (1996-1999), Netanyahu è un veterano di questi scontri verbali e un assiduo studente di decenni di rapporti fra Israele e Usa ed ha avuto sempre la certezza che anche questa “crisi” sarebbe terminata nel modo in cui in effetti si è conclusa.
 
Parafrasando una citazione di John Kennedy – nel suo confronto con Nikita Krushchev a proposito della crisi dei missili a Cuba - possiamo dire: Netanyahu e Obama si sono fissati negli occhi, e Obama li ha chiusi per primo, ancora una volta.
 
Addio a uno Stato palestinese
 
Non è ancora possibile prevedere tutte le conseguenze di questa nuova ritirata degli Usa dalla categorica richiesta di terminare le colonizzazioni israeliane. Oltre a colpire la credibilità degli Stati Uniti in Medio Oriente – e forse anche altrove – gli effetti potrebbero indebolire in modo tragico la fiducia dei palestinesi di giungere alla loro libertà con mezzi pacifici, dato che essi sono sotto occupazione israeliana dal 1967.
 
In effetti, per i palestinesi –e non solo per loro – la continua attività delle colonie israeliane nelle zone occupate, mentre si parla di negoziati, rischia di essere interpretata come una dichiarata intenzione di non abbandonare mai più i territori occupati e non permettere mai una libertà ai palestinesi. Infatti, che senso ha per Israele continuare ad investire miliardi introducendo coloni nei territori da cui dovrebbe poi rimuoverli per giungere a un trattato di pace coi palestinesi?
 
Il presidente Abu Mazen e l’Olp – che sotto il nome di “Autorità nazionale palestinese” amministrano una piccola parte della West Bank, dove esiste un qualche governo autonomo palestinese in modi molto circoscritti – è forse troppo debole per resistere alla forte pressione internazionale che gli domanda di partecipare a qualche forma di negoziato, mentre continua in parallelo la colonizzazione israeliana. L’Autorità nazionale palestinese (a cui Israele non permette perfino di usare l’aggettivo “nazionale”), è troppo implicata nello status quo.
 
 
Essa dipende in modo pesante dagli aiuti internazionali (che – paradossalmente – aiutano di fatto Israele perché lo libera dal fardello finanziario di dover provvedere ai servizi per la popolazione civile nei territori). Inoltre, la sua piccola élite politica, economica, sociale può crescere proprio in queste condizioni. Ma le organizzazioni estremiste armate – soprattutto Hamas – si addestrano a sfruttare la prevedibile esplosione di frustrazione di due milioni di persone, per i quali la continua mancanza di una realistica speranza di pace e libertà risulta ormai difficile da sopportare. Per la gente comune in Palestina, che non è parte dell’elite al governo, vivere sotto l’occupazione senza diritti civili non è qualcosa di astratto. A Gerusalemme est, ad esempio, decine di migliaia di case palestinesi sono considerate “illegali” dal potere occupante e potrebbero essere demolite da un giorno all’altro. Nel quartiere di Sheikh Jarah, abitato dalla classe media, diverse famiglie sono state letteralmente buttate in mezzo alla strada e le loro case sono state date a dei coloni. Il fatto che questo sia avvenuto vicino alle sedi di consolati stranieri, alle case dei rappresentanti diplomatici occidentali ha reso ancora più cocente la disperazione della gente che adesso vive sotto alcune tende proprio accanto alle loro abitazioni di prima e a tutta la popolazione palestinese di cui queste persone sono parte.
 
Terza Intifadah o Bantustan?
 
Tutto ciò porterà a una “Terza Intifadah”? A un’altra “rivolta”? E sarà un moto popolare come alla fine dell’87 e negli anni seguenti, o una violenta crudele e violenta, come quella del 2000 e degli anni seguenti? Negli ultimi 10 giorni vi sono stati segnali in questo senso, ma per ora è difficile dirlo.
Data la stretta collaborazione con le forze dell’ordine dell’Autorità nazionale palestinese; il personale interesse dei suoi rappresentanti e dell’élite palestinese nel mantenere la pace; la memoria della spietata repressione delle Intifadah precedenti, il governo israeliano spera che tutto ciò sia sufficiente a evitare almeno una vasta e diffusa “Rivolta”.
 
Forse il governo spera nella sua capacità di perseguire in modo indefinito la sua evidente politica a lungo termine che è dividere la West Bank, in affollate enclave palestinesi, fatte in maggioranza di residenti urbani e senza terra, circondate e divise da insediamenti insieme militari e di coloni israeliani. Se questa è la situazione sul terreno, Israele non avrà alcuna obiezione a chiamare “Stato” questo insieme di enclave palestinesi. In effetti, chiamare questo insieme uno “Stato” darà a Israele il vantaggio di non preoccuparsi nel dare ai palestinesi diritti civili in Israele.
I critici israeliani di sinistra parlano da tempo di una connessione fra tanti “Batustans”.
 
 
Qualunque cosa accada, diversi palestinesi hanno iniziato ad mettere in guardia Israele in modo esplicito che questo non è uno scenario accettabile. Se la politica degli insediamenti rende impossibile uno Stato palestinese, i palestinesi esigeranno allora diritti civili in uno Stato unitario con Israele e il mondo li appoggerà. Abu Mazen stesso ha espresso espliciti avvertimenti in questo senso.
Per gli israeliani questo sarebbe un finale “scenario da incubo”, la fine dello Stato nazionale ebraico che Israele voleva essere e di fatto è. Già ora, su circa 9 milioni di persone in Israele e Territori occupati insieme, tre milioni sono palestinesi (compreso un milione di essi residenti in Israele e con cittadinanza israeliana). Da questo conto escludiamo Gaza, che è un problema in sé, e che potrebbe forse avere uno Stato per conto suo, con la benedizione di Israele e un certo senso di sollievo).
 
 
In ogni modo, grazie al loro elevato tasso di crescita della popolazione, in uno Stato unitario i palestinesi potrebbero perfino divenire la maggioranza in poco tempo. Lo “scenario da incubo” di uno Stato unitario non più ebraico è uno degli argomenti più acuti fra i molti opinion leader israeliani che in questi anni hanno continuato a combattere per la pace e per uno Stato palestinese indipendente.
 
Alcuni osservatori, anche se una minoranza, affermano che la situazione è già irreversibile, con 500 mila coloni israeliani che vivono nei Territori occupati (West Bank e Gerusalemme est) affianco a due milioni di palestinesi. Miron Benvenisti, commentatore di valore e già vicesindaco di Gerusalemme, lo ha detto da molto tempo. Altri, la maggioranza, credono vi sia ancora del tempo a disposizione, anche se non molto. Già ora, il rimpatrio di mezzo milione di coloni – o magari meno, se Israele e Palestina si accordano in qualche scambio territoriale – sembra un compito gigantesco, che può essere affrontato solo con un massiccio aiuto internazionale, che può avvenire solo se si concorda un piano di pace in una cornice multilaterale, come quello varato nel 1991 con la Conferenza di Madrid. Tale aiuto dovrebbe essere ancora maggiore, se si ha in mente di risolvere anche l problema dei rifugiati palestinesi della guerra del ’48 e del ’67 (questi ultimi sono meno, ma sempre numerosi).
 
Tornando ai fatti iniziali, rimane da spiegare questa marcia indietro così rapida da parte degli Usa, per la seconda volta in meno di un anno. Nessuno ha una risposta completa. Sembrano giocare diversi fattori:
 
1)      il presidente è impegnato in modo deciso su diversi temi politici interni, essenziali per la sua presidenza e potrebbe considerare per nulla saggio spendere troppo capitale politico in una lotta brutale con la cosiddetta “lobby pro-Israele”, fatta in maggioranza di cristiani evangelici e altri che poco conoscono o capiscono della situazione in Terra Santa.
 
2)      L’amministrazione potrebbe essere giunta alla conclusione che è meglio lasciare Israele a trovare da sé a difendere il supremo interesse nazionale in pace con una Palestina ora sotto occupazione e che questa potrebbe essere l’opzione più fruttuosa.
 
 
3)      Vi è anche il fatto che l’amministrazione per diversi mesi ha lavorato sodo per dissuadere Israele dal lanciare un attacco preventivo contro le istallazioni nucleari iraniane. La visita del vice-presidente aveva questo come motivo primario.
 
Il nucleare iraniano e i rischi per Israele e gli Usa
 
La paura di Israele per la bomba nucleare iraniana e genuina è condivisa da tutti gli israeliani, di destra, di sinistra, di centro. Secondo tutte le persone d’Israele questo è il tema esistenziale più preoccupante che lo Stato deve affrontare. Ogni giorno il regime iraniano rafforza questa preoccupazione minacciando di cancellare Israele dalla carta geografica.
 
Israele vede che l’Occidente è totalmente inefficace nei suoi tentativi di persuadere gli iraniani ad abbandonare il loro progetto nucleare sospetto. Dialogo e negoziati non hanno portato a nulla e non vi sono segni che questi potranno essere efficaci nel futuro, non prima che l’Iran abbia ottenuto la sua bomba nucleare. Le sanzioni promesse dagli Usa e dagli altri Paesi occidentali non si sono materializzate al Consiglio di sicurezza e tutte le sanzioni presenti e future sembrano sciocche e ridicole, utili ad irritare il regime iraniano e spingerlo ancora di più ad accrescere ed accelerare i suoi sforzi verso il nucleare, piuttosto che domandargli di fermarsi.
 
Date queste condizioni, è molto reale la possibilità che Israele si senza obbligato a lanciare un attacco aereo contro le istallazioni nucleari iraniane. Gli israeliani sono i primi a poter capire le orribili conseguenze di una simile scelta. Essi sarebbero sottoposti a una continua ondata di attacchi missilistici da Hezbollah in Libano e da Hamas a Gaza, come anche a possibili missili a lunga gittata dall’Iran. Per questo non si affrettano a lanciare l’opzione militare. Ma se non vedono un’azione significativa dell’occidente, sotto la leadership Usa, essi potrebbero concludere che la grandezza della minaccia dall’Iran rende accettabile e inevitabile il costo di un’azione militare.
 
Gli Stati Uniti sono fortemente preoccupati di ciò. Oltre a una possibile destabilizzazione del Medio Oriente e delle aree vicine, vi è anche la preoccupazione immediata per le decine di migliaia di truppe americane ancora stazionate in Iraq, al di là del confine con l’Iran: ciò che li renderebbe un quasi sicuro obbiettivo, in una prima ondata di rappresaglie. Da qui l’intenso sforzo degli Usa di dissuadere Israele dall’esercitare l’opzione militare per fermare l’Iran. L’amministrazione può aver pensato che ora come ora questo è al primo posto in quanto materia di emergenza, qualunque sia il costo di un rimando al futuro di una resa dei conti con Israele su ciò che l’amministrazione, solo la settimana prossima, definiva “un’offesa e un insulto agli Usa” e cioè la questione degli insediamenti illegali.
 
È vero che la questione degli insediamenti è vista da civili e militari Usa come dannosa agli interessi di sicurezza nazionale – dati i suoi effetti infiammatori sulla situazione regionale, già infuocata – ma il livello di pericolo legato alla questione iraniana è tale da venire al primo posto, costringendoli a coordinarsi con Israele. Almeno per ora.
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