Uscire dalla crisi: le inutili soluzioni di destra e di sinistra
Milano (AsiaNews) - Fra la crisi attuale e quella del ’29 vi sono caratteristiche molto simili. Nel cercare una soluzione alla crisi, politici ed economisti di schieramento opposto vanno maturando un consenso “bipartisan”, che è quello di evitare di commettere gli stessi errori compiuti quasi 80 anni fa, dopo il crollo di Wall Street. L’illusione, un po’ consolatoria, è di sapere sulla base della lezione del passato che cosa in teoria c’è da fare. Si dimentica, però, che fra il ’29 e il 2008 vi sono anche significative differenze. Ad esempio, la circolazione monetaria, sia interna che internazionale, non ha più alcun riferimento alla parità aurea. Inoltre l’attuale crisi è molto più estesa e profonda di quella del ’29[1]. Ipotizzare quindi delle soluzioni che ricalchino quelle tratte dalle passate esperienze non servirà a molto. Anzi, le soluzioni ispirate al passato rischiano di far precipitare l’economia in una spirale molto pericolosa.
Le soluzioni “di sinistra” e “di destra”
I vertici politici di tutto il mondo sembra non abbiano ancora compreso che i problemi odierni sono diversi da quelli del passato. In modi quasi imperturbabili ci ripropongono vecchie ricette, di “destra” e di “sinistra”, rimescolate insieme.
Su AsiaNews abbiamo già scritto su quanto è inutile e dannoso il piano “bipartisan” di Paulson[2]. C’è solo da aggiungere che da 700 esso è lievitato a 2 mila miliardi di dollari senza una specifica autorizzazione del Parlamento americano[3], con tanti saluti alla democrazia; la Fed si è perfino rifiutata di fornire dettagli su chi ne ha beneficiato, con tanti saluti alla trasparenza.
Inutili e dannosi, temiamo, risulteranno anche i provvedimenti preannunciati in molti paesi. Né ricette di “sinistra” - che agiscono sulla domanda - né ricette di “destra” - che agiscono sull’offerta – riusciranno a produrre risultati in termini di crescita economica. Finora a prevalere sembra siano soluzioni stataliste di “sinistra” – il modello keynesiano e del New Deal di Roosevelt – cioè il salvataggio statale di banche e grandi industrie – con l’intento dichiarato di risanarle e cederle poi ad investitori privati[4]. Questo tipo di programmi è in genere accompagnato da un forte incremento della spesa infrastrutturale – strade, porti, sostegno alle “nuove” fonti d’energia, come previsto nel programma annunciato da Obama – e da un calo dei tassi d’interesse stabilito a tavolino[5]. In particolare, quest’ultimo è un provvedimento all’apparenza popolare perché abbassa marginalmente il costo dei mutui. Chi, però, non ha introiti, perché ha perso il lavoro o aveva guadagni solo saltuari, non beneficia affatto di un calo dei tassi e questo vale anche per le imprese, che non hanno più ordinativi. Una riduzione dei tassi d’interesse oggi non riavvia la crescita economica e non produce nuova occupazione. Anzi, può avere un effetto deflattivo indesiderato di riduzione del circolante monetario. Infatti, i consumatori e le imprese che hanno mantenuto delle entrate sono già fortemente indebitati in tutte le maggiori economie del mondo – ed in particolare negli Stati Uniti – ed ogni riduzione dei tassi verrebbe impiegata nella riduzione del debito, non per maggiori consumi o investimenti. A beneficiarne in maniera unica o prevalente sono dunque banche e finanziarie che operano a “leva”[6]. Questo calo dei tassi, in assenza di impieghi produttivi, non garantisce una ripresa economica sana, ma proroga soltanto un benessere artificiale. Anche l’aumento della spesa pubblica per infrastrutture comporta conseguenze inflattive e quindi di una crescita drogata. Per quanto riguarda i salvataggi industriali, mantenere in vita produzioni obsolete e non remunerative solo per salvare posti di lavoro, amplifica nel tempo il problema perché incrementa il consumo di risorse che non sono state prodotte. L’assenza di una crescita reale non drogata o distorta dalla finanza è il problema, non la soluzione. Non è perciò una soluzione responsabile, mentre invece occorre ridurre un clima d’irresponsabilità diffusa. Il problema si pone poi in proporzioni smisurate in particolare nel caso dei salvataggi finanziari.
Anche per le ricette di “destra” oggi non ci sono reali prospettive di successo. Tali ricette prendono a modello lo stile reaganiano neo-liberista della curva di offerta, con tagli fiscali e privatizzazioni.
Per quanto riguarda i tagli alle imposte[7], negli Stati Uniti – ed in linea di massima anche in Europa – tale provvedimento oggi non produrrebbe risultati. Le tasse sono già state tagliate proprio fino al punto della curva di Laffer in cui non si producono riduzioni del gettito tributario[8]. Ulteriori tagli possono compromettere ancora di più i conti pubblici, già precari. Anche sul fronte delle privatizzazioni, nei paesi sviluppati è stato già fatto molto di quello che si poteva fare, seppure in certi casi piuttosto male.
Negli Stati Uniti un incremento della spesa pubblica nelle proporzioni necessarie non potrebbe essere finanziato né internamente - visto che il tasso di risparmio è nullo o negativo – né dall’estero – visto che il dollaro ha di fatto perso il suo ruolo di moneta di riserva. Anche in Europa ed in Giappone è difficile ipotizzare un incremento della spesa pubblica non inflattivo, in Europa per lo stato dei bilanci pubblici, in Giappone per la già abnorme bolla di massa monetaria, soprattutto in termini di M3. D’altro canto, anche il New Deal, a cui il piano di Obama si ispira, è stato un insuccesso: l’America si riprese dalla Grande Depressione degli anni Trenta solo con la 2a Guerra mondiale.
Alleggerire la difesa e la burocrazia
Certo, per liberare risorse da destinare allo sviluppo nei paesi sviluppati ci sarebbe da fare ancora qualcosa. Negli Stati Uniti, ad esempio, si potrebbe mettere sotto controllo la spesa per la difesa, la più alta del mondo, in cui oltre ad altre considerazioni, si annidano sprechi percentualmente anche colossali. In Europa ed in Giappone si potrebbe intervenire per modificare quelle strutture che dilapidano risorse e bloccano iniziative: un sistema burocratico soffocante, un complesso di grandi imprese che occupa ogni spazio e soffoca ogni dinamismo, la giungla legislativa che produce non solo sprechi, ma soprattutto distorsioni. Più in generale, occorre innalzare la produttività del sistema mediante l’innovazione di prodotto vera e funzionale a bisogni reali, e ciò è possibile soprattutto al di fuori di strutture di ricerca costose ed elefantiache. Occorre, soprattutto, riequilibrare il modello economico mediante un completo cambiamento di paradigma. È possibile sanando l’illegittimità sia del sistema monetario che delle istituzioni politiche per far crescere in maniera responsabile, senza ledere i diritti individuali di alcuno, coloro che ne sono ora esclusi.
Di tutto ciò però non si parla. Il concreto rischio è perciò che i provvedimenti adottati, o in procinto di essere adottati, sbilancino a tal punto i conti pubblici da tramutare l’iniziale gelata della deflazione monetaria in una fiammata di inflazione ustionante. Torna alla memoria il precedente storico che portò nel 1971 al definitivo sganciamento del dollaro da ogni tipo di convertibilità aurea. Fu il periodo della stagflazione, stagnazione economica, cioè una blanda forma di recessione, associata ad un’inflazione a due cifre.
La “convergenza” di vedute tra Bernanke, Governatore della Fed, il nuovo ministro designato delle finanze, Thimothy F. Geithner – che in questi anni ha guidato la Federal Reserve Bank di New York – ed il presidente eletto Obama potrebbero portare ad una combinazione simile, ma su una scala ben maggiore. Salvare le banche, il sistema finanziario e le grandi imprese ha un costo fuori ogni misura ed avrà conseguenze fatali per l’economia e tutta la nostra società. Se, come è stato annunciato - e come sembra probabile - questo è l’indirizzo politico, l’economia si avviterà su una spirale tragica. Il governo americano, seguito probabilmente da quello di molti altri paesi, decreterà l’incremento dell’emissione dei dollari in circolazione, aumentando a dismisura il debito pubblico. Il debito pubblico raggiungerà proporzioni tali da non poter essere pagato. Il governo americano dovrà decretare la propria insolvenza finanziaria e il dollaro non varrà più nulla e sarà demonetizzato.
[1] Solo il valore globale dei derivati finanziari è 1'000 volte il valore iniziale del piano Paulson ed è pari a circa quindici venti volte il PIL mondiale. Vedi Il piano Paulson: inutile e dannoso alla democrazia, in AsiaNews.it, 06/10/2008
[2] Vedi nota precedente e Quanto è profondo l’abisso del caos economico, sociale e politico - Asia News, in AsiaNews.it, 30/09/2008; ed inoltre I mutui “subprime” annunciano la più grande crisi finanziaria dopo il ‘29 in AsiaNews.it, 19/09/2007
[3] Vedi Bloomberg.com: Worldwide Fed Defies Transparency Aim in Refusal to Disclose, By Mark Pittman, Bob Ivry and Alison Fitzgerald, Bloomberg news, November 10, 2008
[4] Pochi lo ricordano, perché politicamente sconveniente, ma il New Deal ricalcò alcune precedenti iniziative di Mussolini. Ne è l’esempio l’IRI, Istituto Ricostruzione Industriale, un ente statale in cui confluirono le azioni di grandi banche imprese fallite. Anche le tante simili iniziative odierne nel mondo hanno perciò nel prototipo fascista un antecedente certo molto sgradevole in America. Per la sinistra è invece un precedente storico da censurare completamente.
[5] In molti casi, come ad esempio in Giappone negli scorsi decenni, i bassi tassi d’interesse sono arrivati a risultare addirittura negativi perché inferiori all’inflazione reale.
[6] Impiegano cioè risorse prese a prestito per un elevato multiplo del proprio capitale.
[7] Per la verità i tagli alle imposte come proposti da Obama sono concettualmente diversi da quelli reaganiani.
[8] L’economista Art Laffer riprese una ben nota legge dei manuali classici di Scienza delle Finanze. Il concetto è che esistono due aliquote d’imposta che forniscono il gettito tributario massimo, uno più elevato ed uno inferiore. Al di sopra di quest’ultimo ogni inasprimento fiscale è inutile e dannoso.