Un milione in piazza per un’altra spallata a Mubarak, l’esercito si limita a sorvegliare
Dopo la dichiarazione dei militari di non voler usare la forza, ElBaradei dice al presidente di andarsene “entro venerdì”. Timori e speranze per l’effetto domino: in Giordania il premier incontra il movimento islamico, l’Iran auspica un Medio oriente musulmano che si opponga a Israele.
Il Cairo (AsiaNews/Agenzie) – Centinaia di migliaia di persone stanno affluendo, al Cairo, in Tahrir Square, la piazza della Liberazione, divenuto il centro della protesta degli egiziani. Si aspetta un milione di manifestanti in questo luogo simbolico, visto che vi si affacciano il Museo egizio, il quartier generale della Lega araba, l’Università americana e, di lato, il Mugammma, enorme edificio che ospita decine di uffici di un’amministrazione pubblica accusata di inefficienza e corruzione.
I manifestanti appaiono più organizzati: nelle vie che portano alla piazza ci sono volontari con targhette “Sicurezza del popolo”, che dicono di voler evitare infiltrati governativi che istighino alla violenza. Con loro anche militari, la cui presenza assume un senso particolare dopo che questa notte il portavoce dell’esercito, Ismail Etman, ha dichiarato che i soldati “non hanno usato e non vogliono usare la forza”, affermato che “tutti hanno la libertà di esprimersi pacificamente” e sottolineato che i manifestanti “non hanno commesso alcun atto che destabilizzi la sicurezza del Paese”.
Il governo ha tentato di limitare in ogni modo la manifestazione di oggi, bloccando trasporti e internet, per impedire arrivi e comunicazioni.
Quanto accade al Cairo, ma non solo nella capitale, appare come una ulteriore spallate al trentennale regime di Hosni Mubarak, ogni tentativo del quale di fermare la rivolta cozza con l’espressa volontà della folla che vuole che se ne vada. Mohammed ElBaradei, che appare un leader della rivolta, oggi gli ha chiesto di farlo “entro venerdì”.
Proprio la caduta di Mubarak, per quasi tutti ormai solo questione di breve tempo, sta suscitando non solo in Medio Oriente interrogativi sul futuro. Si teme l’effetto domino. In Giordania il governo sembra attento alle richieste del potente Islamic Action Front (IAF) che domenica in un incontro col primo ministro Samir Rifai ha presento per iscritto le sue richieste: dimissioni del governo, modifica della legge elettorale, formazione di un governo di salvezza nazionale guidato da un premier eletto. Preoccupato appare anche il presidente siriano Bashar el-Assad, che in una intervista al Wall Street Journal ha parlato di Medio Oriente “malato” da decenni di stagnazione, ma si è rifiutato di commentare quanto sta accadendo in Tunisia ed Egitto, sostenendo però che il suo Paese è “fuori da questo”.
Molto preoccupati gli israeliani. L’esercito e la polizia di frontiera hanno intensificato la sorveglianza del confine con l’Egitto, nel timore di infiltrazioni di terroristi e dell’arrivo di masse di beduini del Sinai in fuga dai disordini. A Gerusalemme è molto vivo soprattutto il timore che la rivolta del Cairo trasformi l’Egitto in un nuovo Iran. Timori che trovano conforto in un’affermazione del ministro degli esteri di Teheran, Ali Akbar Salesi, per il quale “I fratelli e le sorelle egiziani mostrano di non voler continuare a tollerare i crimini del regime sionista”, il che dovrebbe aprire la via a “un Medio Oriente islamico e potente capace di opporsi a Israele”.
Se, in questa prospettiva, per l’Iran l’effetto domino è un bene, sono di più coloro che si interrogano sulle cause e le conseguenze di quanto sta accadendo. L’ex ministro degli esteri giordano, Marwan Muasher, in un articolo pubblicato ieri sul Guardian ritiene “essenziale” che i leader arabi “apprendano la giusta lezione se vogliono evitare lo stesso destino”. Egli sostiene che “sebbene l’onda delle proteste sia sorta per lamentele economiche, è sbagliato pensare che tutto dipende dall’economia. La vera minaccia per il mondo arabo è il livello scadente dei governi”.
Sullo stesso tema, un editoriale dell’autorevole Asharq Alawsat scrive che “la crisi che colpisce le nostre repubbliche arabe è che esse sono governate in un modo simile a un regime monarchico”. “I re sono cambiati, ma i presidenti sono rimasti gli stessi. Questa è la vera crisi, non esiste il principio di un termine fissato per la presidenza. I regimi della regione, quindi, alla fine arrivano a un empasse e usano tutti gli stratagemmi possibili, il che crea una crisi di legittimazione”.
L’unica via per uscirne, è seguire “il modello turco. In tale sistema, l’esercito gioca il ruolo dell’iniziale garante e autorità, finché un candidato accettabile emerge dalla politica. Questo è reso possibile da emendamenti costituzionali, naturalmente a partire da un termine definito della presidenza. Questo è quello che vediamo sta prendendo forma in Tunisia oggi e questo è quello che sembra stia per accadere in Egitto”.
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