15/10/2007, 00.00
IRAQ
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Tra i cristiani del nord: il dramma del sovraffollamento e la minaccia della curdizzazione

AsiaNews raccoglie la testimonianza di un gruppo di cristiani iracheni di ritorno in Italia dopo una lunga visita nel nord dell’Iraq, nella zona dove sono stati rapiti i due sacerdoti siro-cattolici. Qui cercano riparo i cristiani perseguitati a Baghdad e Mosul, ma il flusso migratorio sta creando numerosi problemi: discriminazione, aumento del costo della vita, degli affitti, mancanza di strutture sanitarie. Nelle difficoltà la Chiesa continua a sperare anche grazie all’esempio del martirio di p. Ragheed Gani. Ogni domenica sulla sua tomba a Karamles una folta processione di persone accompagna i suoi genitori e prega per la pace.
Roma (AsiaNews) - Il rapimento di altri due sacerdoti a Mosul riporta sotto i riflettori dei media il dramma della comunità cristiana in Iraq, stretta nella morsa del terrorismo e della persecuzione religiosa. In molti fuggono da Mosul e Baghdad verso il nord del Paese, dalle minacce quotidiane di morte e dal rischio costante di kamikaze, ma la realtà che li aspetta è drammatica e in atro modo difficile da sostenere. Il sovraffollamento dei cristiani nei villaggi della Piana di Niniveh e nel Kurdistan iracheno, dove ormai si concentra l’esigua comunità, sta creando tensioni sociali e grandi problemi di convivenza e la gente non sogna altro che tornare a casa. In questo contesto le chiese cristiane, nel mirino dei terroristi e dei criminali oggi più che mai, continuano a portare avanti in modo limitato le loro attività, “con grande fede e la certezza che un giorno tutto questo sangue servirà a far nascere un nuovo Iraq”. “La speranza è alimentata giorno dopo giorno dal sacrificio di p. Ragheed Gani – raccontano ad AsiaNews fonti cattoliche nel nord - sulla cui tomba giovani e adulti ogni domenica vanno a cercare la forza di andare avanti”.
 
In una conversazione con AsiaNews alcuni iracheni caldei emigrati in Italia, e di recente tornati da una visita in Kurdistan e nella zona di Nineveh, denunciano il dramma dei profughi cristiani nel nord e chiedono che la Chiesa universale non dimentichi questo Paese.
 
Kurdistan, sicurezza in bilico
Nella regione semiautonoma del Kurdistan la situazione della sicurezza è buona: il governo paga la ricostruzione di case e chiese per i cristiani, come pure un corpo di vigilantes, che con dei check point controllano gli accessi ai villaggi. Ma la ricostruzione – raccontano – sembra in questo momento senza criterio: abitazioni sparpagliate qua e là, si edificano case e scuole ma non vi sono ospedali. I cristiani per di più non possono acquistare le case costruite dal governo e qualora volessero lasciarle, devono anche pagare di tasca propria le autorità. Tra la gente comune – riferiscono le fonti – si pensa che questo tipo di iniziative, se pur lodevoli, mirino più che altro ad invogliare le famiglie cristiane a spingersi al nord per poi attuare il progetto della Piana di Niniveh: la zona dedicata ai cristiani, di cui beneficerebbero soprattutto i curdi, ma che è vista con preoccupazione dalla comunità cristiana. Questa finirebbero così per fare da cuscinetto tra sunniti e curdi in un Iraq diviso lungo linee etniche come di recente proposto dal Senato Usa e appoggiato dal presidente iracheno, curdo, Jalal Talabani.
La “questione curda”, inoltre, rappresenta ancora un forte motivo di tensione tra Iraq e Paesi limitrofi: “dai villaggi al confine, si vedono i soldati turchi che minacciano incursioni e attacchi”; mente l’Iran ha già più volte effettuato bombardamenti nei mesi passati.
 
Problemi sociali anche al nord
Chi arriva in Kurdistan non ha più l’idea di essere in Iraq. Ormai – raccontano ad AsiaNews gli iracheni rientrati – si parla solo il curdo: all’aeroporto di Erbil, se chiedi informazioni in arabo non ti rispondono, pur capendoti”. Il problema dell’integrazione esiste: i profughi interni vengono chiamati “sfollati” negli uffici e soprattutto nelle scuole, così che le famiglie venute da fuori si sentono in qualche modo discriminate e doppiamente umiliate dopo aver dovuto lasciare ogni bene per poter fuggire. I ragazzi in classe si chiedono perchè i professori la mattina all’appello chiedano agli “sfollati” di alzarsi e identificarsi: “Non siamo tutti iracheni?”.
L’ingente flusso di emigrati interni ha causato un vertiginoso caro vita in Kurdistan, ma anche nel nord dell’Iraq. Ad esempio: nel 2003 un pieno di benzina costava 1 dollaro, oggi con la stessa cifra si compra solo un litro; 1 Kg di pomodori costava 25 – 30 centesimi, ora quasi un dollaro; gli affitti sono alle stelle, una o due stanze arrivano a 200 - 300 dollari al mese. Le famiglie numerose, di 7 o 8 persone, fuggite senza niente dalle città e ora senza lavoro non possono sostenere prezzi del genere. Un padre di famiglia con lavoro autonomo può arrivare a guadagnare 300 dollari mensili, ma un semplice impiegato si ferma a 200 dollari.
Per non contare i problemi più materiali. L’acqua arriva ogni due giorni e non è potabile: o si beve così o bisogna procurarsi le tavolette di cloro per depurarla. Questo contribuisce alla diffusione di malattie gravi come il colera; la corrente elettrica c’è solo per due ore al giorno e quando se ne può usufruire per almeno 10 ore, quella diventa una giornata di festa. Quando arriva la luce si sente la gente urlare dalla gioia: “Luce, luce!”. Con 50 gradi all’ombra senza possibilità di condizionatori o frigoriferi per conservare gli alimenti, infezioni e contagi si diffondono rapidamente soprattutto tra i bambini. Completamente assente il sistema sanitario: vi è un solo piccolo ospedale a Qaraqosh, ma non ci sono mezzi, né medicinali. I medici sono ancora nel mirino dei terroristi e non possono lavorare. L’istruzione è decadente e non avendo un organismo di controllo tutto va alla deriva.
“Viviamo nel terrore più totale – dice una giovane donna mamma di tre figli a Karamles, 10 km da Mosul - la gente sa che non è sicura neppure in Kurdistan, o nel nord. Anche un carretto che viene a vendere vestiti o verdura sotto casa è visto come un possibile kamikaze, ma non si può fare a meno di uscire e dopo gi attentati contro i villaggi yezidi (14 agosto), si è iniziato a temere di più”.
 
La vita della Chiesa
L’aumento della presenza cristiana al nord e in Kurdistan, ancora non stimata nell’esattezza, crea difficoltà alla Chiesa caldea locale, i cui sacerdoti non riescono ad arrivare a tutti. Ad Ankawa sono ormai concentrate gran parte delle istituzioni caldee come la facoltà teologica, Babel College, e i seminari. Da poco sono riprese le lezioni e continuano in tutta la zona catechismo, comunioni e matrimoni, campi scuola per i ragazzi. Ad agosto, alla presenza di numerosi fedeli, tre suore caldee ad Erbil hanno preso i primi voti, mentre altre sei a Karamles quelli perpetui.
Seppur addolorata dalla barbara uccisione il 2 giugno scorso di p. Ragheed Gani e dei suoi tre suddiaconi a Mosul, “la comunità cristiana ha trovato in questa morte una grande forza”, racconta ad AsiaNews un giovane della zona, che ha visitato a Karamles la famiglia del sacerdote caldeo ucciso. “Il papà e la mamma stanno soffrendo molto ma con grande dignità, non hanno più lacrime. Ora ogni domenica nella parrocchia di Karamles si può vedere un folto gruppo andare in processione con i genitori di Raghedd alla sua tomba: è un segno molto bello dell’eredità lasciata da questo sacerdote. Lui è oggi un grande esempio per tutti, soprattutto per i giovani, e ha dato moto coraggio anche agli altri preti”.
“I cristiani iracheni hanno grande fede - dice uno studente originario di Mosul - non ci sono parole per infondere speranza, l’unica cosa è stare con loro e condividerne la sofferenza, ricordargli che laddove c’è morte c’è anche resurrezione”. “Siamo felici dell’appello del Papa di ieri all’Angelus - esulta una suora irachena - ogni vota che il papa parla dell’Iraq ci sentiamo sollevati. Quello che chiedono i cristiani iracheni è solo di non essere dimenticati. Vorrebbero che rappresentanti della Chiesa andassero a trovarli, condividessero anche se per poco il loro dolore”.
“Credo che un giorno l’Iraq sarà diverso – confida una novizia caldea – il nostro Paese non ha acqua, ma ha tanto sangue con cui irrigare la sua terra, e questo sangue non può essere stato versato invano, sono convinta che servirà ad alimentare un nuovo Iraq, migliore di quello attuale. Un giorno”.
 
Il rapporto con i musulmani
Laddove il governo è impotente nel garantire sicurezza ai cittadini, spesso sono i vicini di casa a dare una mano. E nel caso di molte famiglie cristiane a Baghdad sono stati gli amici musulmani ad offrire ospitalità e aiuto con loro grande rischio. “I musulmani – racconta il gruppo di iracheni contattato da AsiaNews - apprezzano da sempre la nostra ‘diversità’ e sono consapevoli che ciò che manca a loro, come l’amore gratuito e il perdono, lo possono imparare da noi. A dircelo sono state proprio delle mamme musulmane che andavano ad iscrivere i figli nelle scuole gestiste da cristiani”. Altro esempio del valore riconosciuto alla testimonianza cristiana è legato al giorno dell’attentato a p. Ragheed, quando il primo ad opporsi all’azione terrorista è stato un macellaio musulmano che ha implorato i criminali: “Non uccideteli, sono uomini di pace!”.
 
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