11/10/2012, 00.00
CINA – GIAPPONE – FMI
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Tokyo, la Lagarde “sgrida” la Cina: Perde molto a non venire qui

Il direttore generale del Fondo Monetario internazionale manda un segnale forte a Pechino: “Mettete da parte le divergenze con il Giappone sulle isole contese, la situazione economica mondiale lo richiede con urgenza”. Tokyo pensa a un segnale diplomatico di distensione, ma l’economia bilaterale (e quella regionale) continua a perdere colpi.

Tokyo (AsiaNews) - La Cina "perderà molto" a non inviare al Summit sull'economia globale in corso a Tokyo i propri maggiori funzionari economici. Lo ha detto questa mattina il direttore generale del Fondo Monetario internazionale, Christine Lagarde, commentando la decisione presa da Pechino di annullare la partecipazione all'incontro del capo della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, e del ministro delle Finanze. Zhou avrebbe dovuto pronunciare il discorso conclusivo, previsto per domenica 14 ottobre.

Anche se la Cina non ha dato spiegazioni ufficiali per questa scelta, è chiaro che il boicottaggio deriva dalla disputa diplomatica che contrappone Pechino e Tokyo sulla sovranità contesa di un arcipelago nel Mar cinese orientale, che i cinesi chiamano Diaoyu e i giapponesi Senkaku. È dallo scorso agosto che i due governi si fronteggiano: la Cina usa questa disputa per distrarre la popolazione dall'imminente cambiamento di leadership, mentre il Giappone vuole far dimenticare gli errori economici e la crisi energetica provocati dal nuovo governo.

La Lagarde ha chiarito che questa questione è secondaria: "I due Paesi devono risolvere le proprie dispute in maniera rapida, dato che le nazioni di questa regione del mondo sono molto importantio per l'economia globale. Abbiamo molte e importanti questioni da discutere, e per questo abbiamo organizzato grandi dibattiti e grandi seminari. Credo che Pechino abbia perso molto".

Non è chiaro il valore dell'arcipelago. Si pensa che esso abbia anzitutto un valore strategico, trovandosi sulla rotta delle più importanti vie marittime; altri affermano che oltre alle acque ricche di pesca, nel sottofondo marino vi siano sterminati giacimenti di gas. Nel 2008, come gesto di distensione, i due governi hanno firmato un accordo per lo sfruttamento e la ricerca congiunti nell'arcipelago, che tuttavia è rimasto lettera morta.

Il conflitto diplomatico ha contribuito al rapido declino del mercato azionario giapponese. Dal 10 settembre scorso - data in cui l'amministrazione Noda ha annunciato l'acquisto delle isole contese da una famiglia di Okinawa - la media dei titoli Nikkei ha perso il 3,1 %.

Junko Nishioka, capo economista alla RBS Securities Japan ed ex funzionario della Banca centrale del Sol Levante, è chiaro: "Questa situazione è l'ultima cosa utile per il Giappone, ora come ora. Data la recessione economica mondiale e il rallentamento del giro d'affari, la disputa ha creato enormi danni. È divenuta molto più seria di quanto avessimo previsto all'inizio".

Ma il problema riguarda da vicino anche la Cina. Secondo il ministero cinese del Commercio, gli investimenti diretti dal Giappone sono la seconda fonte (per volume) di denaro straniero nell'economia locale: nei primi 8 mesi del 2012 le industrie nipponiche hanno investito nel Paese comunista 5,1 miliardi di dollari, seconde solo a quelle di Hong Kong.

Dato che anche il settore automobilistico giapponese ha subito una forte flessione - le aziende nipponiche che producono in Cina sono state costrette a chiudere dalle violente manifestazioni anti-giapponesi e le vetture rimangono invendute - Tokyo sta pensando a un piccolo passo indietro per calmare le acque.

La Kyodo News, la maggiore agenzia di stampa del Paese, ha scritto oggi che il Giappone "sta preparando un piano per presentare un piccolo compromesso con la Cina riguardo la questione". Nell'articolo si cita una fonte giapponese "vicina al problema" secondo la quale Tokyo "potrebbe riconoscere le rivendicazioni cinesi sulle isole, senza però riconoscere la legittimità delle rivendicazioni territoriali cinesi". Si tratta di un segnale che si auto-contraddice, che secondo alcuni analisti cinesi è soltanto una richiesta di "tornare ai canali diplomatici e lasciare in pace l'economia".

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