Terra Santa verso la pace o verso una terza Intifada?
Un'analisi sui segni di distensione, ma anche sulle minacce e le ambiguità che rischiano di far scoppiare nuove rivolte.
Gerusalemme (AsiaNews) Una serie straordinaria di attività politiche e diplomatiche sta facendo crescere una sensazione di cauto ottimismo in Terra Santa. Nelle ultime settimane vi è stato l'incontro a Sharm el-Sheikh fra il presidente palestinese Abbas e il primo ministro israeliano Sharon: l'incontro era voluto dal presidente egiziano Mubarak e sostenuto con forza dal re Abdallah di Giordania. In questi giorni vi è l'incontro della Lega Araba ad Algeri, dove la Giordania rilancia la proposta della risoluzione del marzo 2002: un processo di pace comprensivo fra paesi arabi e Israele, in cambio del ritiro dai territori palestinesi occupati dal '67. Intanto continuano colloqui molto intensi fra Egitto e Israele con a tema l'annunciato ritiro di coloni e truppe dalla striscia di Gaza. Nello stesso tempo, l'Autorità palestinese e l'Olp hanno avuto incontri con le organizzazioni dissidenti palestinesi, compresi Hamas e Jihad islamica. Il frutto è la decisione perlomeno fino alla fine di questo anno di sospendere gli attacchi armati contro Israele. A questo quadro va aggiunto l'emergere di un nuovo impianto dell'architettura politica palestinese, in cui dovrebbero entrare anche queste organizzazioni. Da parte sua, Hamas si dice pronto a partecipare alle elezioni parlamentari palestinesi, in programma per quest'estate. Ciò fa sperare che Hamas si trasformi, da organizzazione armata che mina il processo di pace, a partito politico impegnato a giocare all'interno delle regole (democratiche). Ministri e inviati d'Europa e del mondo vanno e vengono di continuo: con parole, scritti, proposte e mediazioni incoraggiano le due parti a perseverare nella ricerca della pace. La maggiore sicurezza in Israele e nella West Bank ha causato un immediata crescita del turismo e dei pellegrinaggi. Dopo molte prove, la popolazione civile comincia a tirare qualche sospiro di sollievo.
I segni di pessimismo
Ma altri sono meno ottimisti e ricordano i cicli di speranza e di amaro disappunto, tipici degli anni '90. Senza alcun dubbio, le attuali prospettive sono fragili e sottomesse a molte variabili.
In Israele la tensione è in crescita mentre il governo cerca entro il 31 marzo l'approvazione del bilancio da parte del parlamento. Al presente il governo non ha la maggioranza per vincere. Se esso fallisce, la Knesset sarà dissolta e si indiranno elezioni per la tarda primavera. In conseguenza di ciò, si bloccherebbe il piano di ritiro da Gaza e su tutto si stenderebbe un velo di incertezza.
Questo è proprio ciò che gli oppositori del governo Sharon stanno cercando. Le minacce dell'estrema destra di sabotare il ritiro da Gaza crescono ogni giorno di più. I servizi israeliani di sicurezza, insieme al governo e alla gente, temono qualche atto violento ed estremista: un assalto di nazionalisti contro le moschee sulla spianata del Tempio; un attentato alla vita del primo ministro Sharon o a qualche altra personalità del governo. Gli estremisti minacciano anche di bloccare le maggiori vie di comunicazione, creando caos nel paese, indebolendo le forze armate, rifiutandosi in massa di obbedire agli ordini legati al ritiro da Gaza.
Nel territori palestinesi è probabile che Hamas vinca una discreta rappresentanza alle elezioni, rendendo forse più difficile il lavoro ai negoziatori della pace.
Nei territori occupati, le colonie israeliane continuano a crescere, consumando terra ed acqua dei palestinesi. A Gerusalemme la costruzione del Muro non si ferma, dividendo la zona palestinese della città dal suo entourage nei territori. Talvolta il Muro viene a dividere perfino mariti da moglie e figli, decine di migliaia di persone dalle loro scuole, dispensari, ospedali, campi, fabbriche, luoghi di preghiera. Per queste persone, la crescita delle colonie e il completamento del Muro a Gerusalemme sono uno degli ostacoli più forti ad avere fiducia in un processo di pace.
Quale processo di pace?
Ma il problema cruciale è sapere qual è il reale obbiettivo di questo interminabile "processo di pace" che sembra camminare a intermittenza e a singhiozzi. Il presidente palestinese Abbas chiede a Israele di riprendere i negoziati di pace per giungere a un trattato di pace definitivo. Ma il governo Sharon non è pronto. Per esso, una pace definitiva va lasciata al futuro. Tutto ciò che va fatto per ora è solo un accordo temporaneo, ad interim, non diverso da quanto avvenuto fra il 1995 e il 2000, quando i palestinesi avevano acquisito limitata autonomia su Gaza e alcune parti della West Bank e Israele era libero di continuare a fondare colonie nel resto dei territori occupati.
Al presente ogni discussione per precisare questi punti viene rimandata a dopo il ritiro da Gaza. Non c'è alcun modo di capire cosa succederà se tale ritiro viene bloccato dagli estremisti di destra, usando mezzi "parlamentari" o "extra-parlamentari".
Se il ritiro da Gaza avviene, toccherà agli Stati Uniti e in minor parte all'Europa decidere di premere verso un trattato di pace (come spera Abbas) o verso una situazione "ad interim" (come preferisce Sharon). Se l'UE e gli Usa decidono per quest'ultima soluzione senza blocco di ulteriori insediamenti; senza modifica della costruzione del Muro a Gerusalemme l'ira e la frustrazione della popolazione palestinese potrebbe ribollire ancora una volta giungendo a una Terza Intifada, con ulteriori distruzioni e altro sangue versato. I militanti potrebbero essere incoraggiati a questo nuovo capitolo di lotta proprio dai risultati della seconda Intifadah: è grazie ad essa che Israele ha deciso il ritiro da Gaza. In altre parole: per fermare l'occupazione militare e la conseguente colonizzazione non vi è altro modo più efficace della lotta armata.
Israele definisce il ritiro un "disimpegno". In realtà esso è un "ritiro", anzi una "ritirata", dovuta al fatto che la rivolta armata palestinese ha reso troppo alto il prezzo per continuare l'occupazione.
Stati Uniti ed Europa hanno solo pochi mesi non tanti per andare a fondo sulle loro posizioni e pianificare on cura il "dopo Gaza". Saranno le loro conclusioni a determinare se i popoli della Terra Santa si avviano verso un'era nuova di pace e prosperità o se saranno condannati a rivivere le paure, il sangue, le sofferenze degli ultimi anni. Con l'aiuto di Dio, speriamo che prevalga la saggezza.