Storie dell'Africa: dove i cinesi rischiano la vita per arricchire Pechino
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Il Sudan ha eseguito la condanna a morte di 2 persone accusate dell’omicidio di 4 lavoratori petroliferi, di cui 2 erano cinesi. Intanto sono stati liberati 7 pescatori cinesi, rapiti il 12 marzo nei pressi della penisola Bakassi, ricca di risorse, in Camerun.
I 2 giustiziati erano stati condannati nel 2004 per il plurimo omicidio, dopo essere stati trovati in possesso del veicolo degli assassinati, a Heglig, nel Kordofan Meridionale. Le agenzie non hanno meglio spiegato l’episodio, ma soltanto che le vittime erano dipendenti di una ditta cinese.
Il Sudan è ricco di petrolio e la Cina ne è tra i maggiori acquirenti. Ma negli ultimi anni sono aumentati gli episodi di violenza contro i molti lavoratori cinesi venuti nella zona. Nell’ottobre 2008 gruppi armati hanno rapito 9 lavoratori petroliferi cinesi e in seguito ne hanno uccisi 4.
La statale agenzia Xinhua ha annunciato ieri il rilascio di 7 pescatori, rapiti il 12 maggio mentre viaggiavano verso il porto di Limbe. Il rapimento è stato rivendicato dal gruppo Africa Marine Commando, che aveva chiesto un riscatto tra i 15mila e i 25mila dollari. Il rilascio è avvenuto dopo giorni di trattative.
Pechino ha vastissimi interessi in Africa, perché è sempre affamata di materie prime e disposta a pagarle senza chiedere garanzie su come i governi utilizzino il denaro. Di conseguenza fa affari anche con governi corrotti, che vendono le risorse nazionali per arricchirsi. Invece i Paesi occidentali, quando trattano con governi di dubbia correttezza, chiedono garanzie che il denaro sia utilizzato a vantaggio della popolazione, e si rifiutano di trattare con gli Stati accusati di crimini contro la popolazione, come il Sudan, al quale Pechino è accusata di vendere armi usate contro la stessa popolazione.
La Cina ha così ottenuto posizioni di vantaggio nel Continente. Ma la protesta popolare sempre più esplode contro i cinesi, visti come i nuovi colonizzatori. In Zambia, nello Chambeshi, le ditte cinesi sono accusate di far lavorare i minatori senza garanzie per la sicurezza e di impedire l’attività dei sindacati: qui nel 2005, 51 minatori sono morti per un’esplosione in una miniera e nel 2006 controllori cinesi e la polizia hanno sparato contro i minatori che chiedevano migliori condizioni di lavoro e aumenti salariali. Nel marzo 2008 è esplosa violenta la protesta dei minatori e la polizia ha salvato a stento i dirigenti cinesi dal linciaggio.
Nel febbraio 2007, 14 cinesi dipendenti della Chinese National Petroleum Company sono stati rapiti (e poi rilasciati) in Nigeria da ribelli che accusano la compagnie di aiutare un governo corrotto a privarli delle risorse locali; a marzo 2007 sono stati rapiti altri 2 operai. Nello stesso anno, in Kenya un ingegnere cinese è stato ucciso e un altro ferito.
La protesta è talmente diffusa che in alcuni Paesi, come appunto lo Zambia, i leader cinesi venuti in visita hanno dovuto limitare al massimo le apparizioni pubbliche, per evitare accese contestazioni popolari.
Nei vari Stati Pechino, in cambio delle materie prime, finanzia importanti opere per miliardi di euro, ma pretende poi che i lavori siano eseguiti da ditte cinesi, che portano nel Paese i propri tecnici e le maestranze, utilizzando la forza lavoro locale solo per la mano d’opera non qualificata e sotto pagata.
In altri Paesi la Cina esporta le proprie merci a basso costo, rischiando di strangolare la nascente industria manifatturiera, suscitando vivaci proteste specie nelle maggiori economie del continente, come tra i tessili del Sudafrica.
Lo sfruttamento delle risorse è peraltro indiscriminato: nel gennaio 2008 la Sierra Leone ha vietato l’esportazione di legname per “l’indiscriminato saccheggio delle foreste” compiuto da ditte estere, anzitutto cinesi.