Soprusi e conversioni forzate per oltre 4mila cristiani dell’Orissa
Bhubaneswar (AsiaNews) – A due anni dai pogrom anticristiani dell’Orissa, in 20 villaggi del distretto di Kandhamal oltre 4mila persone soffrono ancora discriminazioni sociali e conversioni forzate da parte della comunità indù. Oltre alla paura di minacce e la totale esclusione dall’economia locale, ai cristiani è proibito anche usare l’acqua delle fontane pubbliche e raccogliere legna nella foresta.
In una conferenza avvenuta lo scorso 30 agosto, mons. Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack – Bhubaneswar, ha affermato: “La gente vive ancora nella miseria. Hanno diritto a vivere una vita dignitosa e il governo dell’Orissa ha l’obbligo di proteggere i cristiani da questi trattamenti disumani”.
Il prelato ha invitato le autorità locali a risarcire le persone colpite dai pogrom rimaste senza abitazione, denunciando l’insufficienza delle compensazioni erogate finora. A tutt’oggi l’entità dei risarcimenti è stata di circa 800 euro, per le case completamente distrutte, e di 300 euro per quelle parzialmente danneggiate.
“Lo Stato – ha continuato mons. Cheenath – dovrebbe aumentare i finanziamenti, da 800 euro ad almeno 3mila a seconda del danno. Solo così, potranno essere ricostruite chiese, scuole, sedi di organizzazioni e istituti”. L’arcivescovo ha aggiungeto che “è stata fatta un’assegnazione arbitraria dei finanziamenti, senza consultare le vittime e le loro esigenze. “Circa 12.500 persone – ha affermato – hanno fatto ritorno nelle proprie abitazioni, ma ve ne sono ancora 17.500 rimaste senza una casa e che attendono di essere risarcite”.
Tra dicembre 2007 e agosto 2008, gli estremisti indù hanno ucciso 93 persone, bruciato e depredato oltre 6500 case, distrutto oltre 350 chiese e 45 scuole. A causa dei pogrom, oltre 50mila persone sono rimaste sfollate. A tutt’oggi, gran parte degli autori dei crimini è in libertà e al processo presso il tribunale di Kandhamal i testimoni sono stati messi a tacere, con minacce e discriminazioni. Dal 22 al 24 agosto vittime, attivisti per i diritti umani e leader religiosi hanno organizzato un tribunale popolare a New Delhi, per fare luce sui fatti e sollecitare l’intervento del governo centrale indiano.