Sindacalista di Hong Kong: “I suicidi in fabbrica, frutto dell’indifferenza”
Secondo Lee Cheuk Yan, sindacalista e membro del Consiglio Legislativo di Hong Kong, “l’ondata di suicidi alla Foxconn deriva dalla repressione e dall’oppressione che il governo cinese impone ai suoi operai, ma anche all’indifferenza del mondo che cerca solo prodotti a basso costo”.
Hong Kong (AsiaNews) – Dietro la scia di suicidi alla fabbrica Foxconn “c’è l’indifferenza e lo sfruttamento del governo cinese e della comunità internazionale, che vogliono entrambi manodopera a basso costo e stabilità sociale nel Guangdong. Ma, prima o poi, Pechino dovrà permettere l’ingresso dei sindacati nel suo territorio e migliorerà le condizioni dei lavoratori, soprattutto di quelli migranti. Il rischio è che la società esploda”. Lo dice ad AsiaNews Lee Cheuk Yan, sindacalista e membro del Consiglio Legislativo di Hong Kong.
Lee, 52 anni, è responsabile della Federazione dei sindacati del territorio e membro del gruppo pan-democratico. Durante i moti di Tiananmen – come tutta la popolazione di Hong Kong – egli ha aiutato i giovani di Pechino e poco prima del massacro del 4 giugno, era riuscito a portare loro il denaro raccolto che doveva servire per acquistare tende, fax, cibo. Arrestato per alcuni giorni, è stato poi estradato ad Hong Kong. Da allora Lee è una delle poche persone a cui è vietato andare in Cina, per le sue responsabilità verso il movimento di Tiananmen, ma soprattutto a causa del suo impegno a favore dei lavoratori di Hong Kong e della Cina.
Sui 14 suicidi avvenuti nella fabbrica, dove si producono gli i-Pad e i-Phone, dice: “Sono il risultato di una politica gestionale oppressiva e cieca. Per i lavoratori, soprattutto per i migranti, la situazione è terribile: sono trattati come bestie nonostante abbiano lasciato casa e famiglia per cercare un lavoro. Non hanno il sostegno della famiglia, affrontano pressioni incredibili e non hanno alcun sostegno umano: scelgono la via più estrema perché non hanno alternative. Qui a Hong Kong non abbiamo giurisdizione sulla Cina continentale: ma possiamo fare pressione affinché le fabbriche trattino i loro operai in maniera umana. Non c’è altro modo per evitare i suicidi”.
La responsabilità di questa situazione, prosegue, “è sicuramente del governo cinese. Ma anche la comunità internazionale ha le sue colpe, perché cerca soltanto manodopera a basso costo senza preoccuparsi del modo in cui questo lavora. Ecco perché dobbiamo fare in modo che ci sia più consapevolezza della situazione: si deve lottare, insieme, per garantire diritti di base alla forza lavoro. Ma questo, come dicevo, interessa per ora molto poco anche al resto del mondo: la crisi spinge tutti a cercare prodotti a basso costo”.
Il caso della Foxconn, e l’interesse mediatico che si era sviluppato intorno ad essa, aveva fatto pensare a una sorta di ‘boicottaggio’ nei confronti della compagnia, che produce per il gigante Apple (oltre che per Dell e Hewlett Packard). Secondo Lee, “questo non c’entra niente. Io credo che l’interesse sia nato dopo la pubblicazione di un operaio con il terribile contratto che gli imponeva di non suicidarsi. Ma questo è ancora più triste: si guarda ai problemi dei lavoratori in Cina come a una cosa ‘di colore’, su cui farsi quattro risate”.
Il futuro, almeno quello prossimo, non riserva grandi sorprese: “La Cina deve capire che, per migliorare sé stessa e la propria popolazione, deve permettere ai sindacati di operare liberamente sul territorio. Ma questo è oggi impensabile: basta pensare a come viene trattata la libertà di espressione per capire che Pechino non lo permetterà a breve. Ma gli scioperi nelle grandi fabbriche, come quello avvenuto alla Honda, fanno ben sperare per il futuro: prima o poi i politici cinesi capiranno che, senza tutele del lavoro, rischiano un’esplosione sociale senza precedenti”.
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