Sembra esclusa la matrice religiosa del sequestro del sacerdote siro-ortodosso
di Mavi Zambak
Nella regione del rapimento i rapporti tra cristiani e musulmani sono buoni, ma la zona è al confine con l’Iraq. Là vive una comunità che parla ancora la lingua d Gesù e il governo stava cercando di farvi tornare coloro che se ne erano allontanati.
Ankara (AsiaNews) – Non si hanno nuove notizie sul sequestro del sacerdote siro-ortodosso Daniel Savci, di 55 anni, rapito ieri pomeriggio nel sud est della Turchia, mentre si recava in una parrocchia di un villaggio nei pressi di Midyat dal monastero di Mor Yakup. Si tratta di uno degli edifici sacri situati nella zona del Tur Adbin, la Montagna dei Servi di Dio, il favoloso altipiano turco ai confini con l’Iraq, dove vive la più antica comunità dei cattolici siro ortodossi ancora presenti su territorio turco insieme ad un’alta concentrazione di abitanti curdi.
Secondo quanto comunicato da Anto Nuay, responsabile di questa comunità cristiana - che conta diecimila fedeli in tutta la Turchia e 2500 in questa zona del sud est turco – “il sacerdote è stato costretto ad uscire dalla sua auto e portato in luogo imprecisato da persone che ancora non hanno un volto né una identificazione”. Poche ore dopo il sequestro una voce anonima ha telefonato ad un amico del prete chiedendo un riscatto e subito dopo attraverso un messaggio SMS sul medesimo telefonino così è stato scritto: “Siate intelligenti, se non procurerete trecentomila euro lo ammazziamo”.
La polizia sta cercando di identificare la provenienza della telefonata e del messaggio, ma, benché già mass media televisivi turchi incolpino il PKK, il partito dei lavoratori curdi, o altri ancora inducano il sospetto di aver già trovato il corpo morto del sacerdote, nulla è ancora emerso dalle indagini in corso, né sono giunte altre indicazioni da parte dei sequestratori.
Il segretario generale del Vicariato del Patriarcato siriano ortodosso che ha sede a Istanbul, Zeki Demir, dice che "non si sa nulla" e dal Patriarcato nessuno si sbilancia. Di certo c'è che il sacerdote è stato rapito ieri pomeriggio e la polizia sta cercando di capire chi sono i sequestratori e il movente. "Tutto il resto - afferma - sono fantasie dei giornali".
Si tende comunque ad escludere che sia un sequestro a sfondo religioso, anche perché proprio in quella zona da sempre i rapporti tra cristiani e musulmani sono buoni e, anzi, proprio di recente preti ortodossi e imam hanno invitato più volte la popolazione ad una comune preghiera per la pace in quella zona attualmente tormentata dagli scontri tra i guerriglieri curdi e l’esercito turco.
Di certo però si sa che non è la prima volta che i cristiani di Midyat e dell’est della Turchia vengono coinvolti nella “guerra” in corso tra turchi e curdi. Negli anni ’80, quasi tutta la comunità dei cristiani siro aramaici si è vista costretta a fuggire dal Tur Abdin, ma a metà degli anni ’80 in 65 mila vivevano ancora in quella regione. Ora saranno a malapena 2500: non potendo sopportare l’incertezza della vita e la paura della morte, si trasferirono in massa a Istanbul o emigrarono all’estero, benché quella fosse la loro terra ancestrale.
Secondo la tradizione, infatti, grazie alla predicazione del discepolo Taddeo, venuto da Gerusalemme a Edessa dopo la Pentecoste, il ramo semitico del cristianesimo – quello che risentì meno degli influssi ellenistici – giunse fin qui e qui prosperò. È vero, nel lontano 451 d.C. i cristiani di Siria non accettarono le definizioni del Concilio di Calcedonia e si distaccarono dal resto delle Chiese, ma nel 1984 l’attuale patriarca Ignazio Zakka I ha incontrato papa Giovanni Paolo II a Roma e insieme hanno redatto una comunicazione congiunta, che così dichiara: «Le incomprensioni e gli scismi che si sono verificati dopo il Concilio di Nicea non intaccano la sostanza della fede, dal momento che queste difficoltà sono sorte per motivi di divergenze terminologiche, di differenze culturali, di formulazioni diverse, mutuate da differenti scuole teologiche, per esprimere la stessa realtà».
Questi cristiani, che ancor oggi parlano la lingua di Gesù, hanno però continuato a essere isolati dal mondo, anche a causa della lontananza dai centri nevralgici della nazione e della conformazione geografica che impedisce facili comunicazioni e uno sviluppo economico.
In questo incandescente territorio ai confini con l’Iraq, la Turchia aveva cominciato a rivalorizzare il sud-est con una serie di nuove riforme e nel giugno del 2001 l’allora primo ministro Bülent Ecevit aveva inviato una lettera circolare nella quale invitava tutti i cristiani siro-aramaici a tornare nella propria terra. Negli scorsi due anni molti hanno iniziato a sperare in un possibile ritorno, grazie anche alle sovvenzioni ricevute dallo Stato. Nei villaggi del Tur Abdin sono state costruite nuove case pronte per essere abitate. Ma la paura degli scontri non si è mai affievolita. Nel giugno 2005 tre cristiani che stavano tornando a casa hanno subìto un attentato, fortunatamente senza conseguenze.
Le tre persone colpite, un prete siriano-ortodosso, un imprenditore proveniente dalla Germania e il sindaco di Harabale stavano viaggiando in auto da Harabale a Kafro quando a un certo punto è esplosa una bomba telecomandata proprio davanti a loro. Tutti sono usciti illesi dalla macchina, ma è un segno evidente che ancor oggi qualcuno vuole ostacolare l’iniziativa del governo, che intende favorire il loro ritorno a casa. Ora, a causa dei nuovi scontri in atto, anche se il processo di investimento e di sviluppo della regione non si è interrotto, si comincia a rimettere in dubbio una possibile convivenze tra etnie e religioni diverse. E il sequestro di padre Daniel non è certo un segnale positivo.
Ma chi c’è dietro questo sequestro? Il Patriarcato siro ortodosso va cauto proprio per non inasprire ancora di più gli animi come invece purtroppo stanno facendo ancora una volta, in maniera indiscriminata, i mass media nazionali.
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