Se Pechino non ferma l’inflazione, c’è rischio di gravi proteste popolari
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La politica degli Stati Uniti sta facendo crescere l’inflazione mondiale e Pechino, per contrastarla, potrebbe essere costretta a fare quanto Washington gli chiede da tempo: apprezzare lo yuan. Intanto il rischio è che il diffuso malcontento popolare esploda in vere sommosse di piazza.
La Cina affronta la peggiore inflazione del decennio, con un aumento ad ottobre del 4,4% rispetto a un anno prima. Ma nel settore alimentare l’aumento è stato superiore al 10%. Per contenere i costi Il 20 novembre il Consiglio di Stato ha deciso sussidi a favore dei produttori di verdure e forniture di energia per chi produce fertilizzanti. Sono stati anche promessi sussidi per le famiglie povere e gli studenti, nonché un aumento della paga minima e delle misure a favore dei disoccupati.
La scorsa settimana il premier Wen Jiabao ha annunciato che lo Stato venderà grano, olio da cucina e zucchero a basso prezzo e ha minacciato di imporre prezzi massimi per alcuni alimenti. Ma esperti commentano che l’imposizione di prezzi massimi darebbe solo una breve soddisfazione alla popolazione esasperata, ma avrebbe effetti temporanei e non colpisce la radice degli aumenti. Anzi, nel lungo termine potrebbe causare una diminuzione della produzione con rischio di ulteriori aumenti. Molti ritengono che la corsa dei prezzi sia scatenata non tanto dalla scarsità di cibo quanto dagli alti costi di prodotti di cui lo Stato è monopolista, come carbone e petrolio. Il peso dei prodotti alimentari nell’indice dei prezzi al consumo è elevato in tutta l’Asia.
Patrick Chovanec dell’Università Tsinghua di Pechino, dice all’agenzia Bloomberg che questa situazione è conseguenza del molto denaro messo in circolazione dallo Stato, con espansione del credito e robusti finanziamenti pubblici, per superare la crisi. “La Cina – dice – è seduta su un vulcano”.
Esperti osservano che la politica economica degli Stati Uniti, che continuano ad aumentare il denaro circolante, provoca un aumento dell’inflazione internazionale. Albert Edwards, capo economista della Société Général, banca leader francese, ritiene che questa politica sia anche mirata a costringere la Cina a riapprezzare lo yuan, che Pechino tiene basso in modo artificiale per favorire l’esportazione dei suoi prodotti. Viene osservato che l’aumento del cibo provocherà l’aumento dei salari e, quindi, di ogni altro prodotto, al punto che la Cina, per frenare l’inflazione indotta dall’estero, potrebbe essere costretta proprio ad aumentare il valore dello yuan, così da abbassare il costo dei prodotti esteri.
Il rischio per Pechino – dice sempre Edwards – è un forte malcontento popolare, anche perché decine di milioni di cinesi vivono ancora in povertà e sono molto vulnerabili a forti aumenti di costo degli alimenti.
Hu Xingdou, esperto dell’Università di Tecnologia a Pechino, commenta sul South China Morning Post che l governo teme l’inflazione più delle proteste dei dissidenti o per le demolizioni forzate, perché “l’inflazione colpisce tutti”. Per cui una protesta scatenata dall’aumento dei prezzi troverebbe sostegno generale.
Il malcontento è già palese e diffuso, perché molti cittadini hanno dovuto ridurre i consumi od orientarli su prodotti di qualità peggiore, e questo ha effetti diretti su commercianti e produttori che vedono calare le vendite. Da Shenzhen molti cinesi si recano almeno una volta al mese a Hong Kong per comprare dentifricio, shampoo e generi simili.
Intanto le previsioni sono pessimiste. Gli economisti della Standard Chartered Plc prevedono per il 2011 aumenti dei prezzi del 5,5% in Cina, con una crescita fino al picco di giugno stimato al +6,3%.
10/04/2008