Rogo in Bangladesh: le ditte (e la Disney) negano ogni responsabilità
Dhaka (AsiaNews) - Magliette con Topolino e altri personaggi Disney; prodotti sartoriali della scozzese Edinburgh Woollen Mill; maglioni della francese Teddy Smith: a produrli erano, tra gli altri, anche i 112 operai morti nel rogo della Tazreen Fashion, in Bangladesh, il 24 novembre scorso. Dal giorno dell'incendio, i grandi marchi stranieri che realizzavano i loro indumenti nella fabbrica tessile si affannano per "chiarire" che da oltre un anno avevano rescisso i contratti con l'azienda bengalese, perché questa non rispettava gli standard di sicurezza internazionali. Eppure, tra ciò che resta dell'edificio, è facile riconoscere pantaloncini, magliette e altri capi venduti da Wall-mart, il colosso statunitense e terzo rivenditore al mondo. Vestiti cuciti in uno stabile di otto piani, con tre scale interne, senza uscite d'emergenza, in stanze dall'areazione scarsa e con le grate alle finestre.
Con il passare delle ore, emergono nuovi particolari circa la dinamica dell'incidente del 24. Il fuoco è divampato nel magazzino, al piano terra. Gli operai del turno di notte, più di 200 persone, sono scesi per le scale, ma il sovrintendente ha detto loro che si trattava solo di una prova e che quindi potevano tornare al loro lavoro. Forse, il responsabile era convinto di poter domare l'incendio, che invece si è propagato in fretta. Non potendo accedere al tetto perché gli ultimi due piani erano bloccati, gli operai si sono ritrovati in trappola come topi. Alcuni di loro sono riusciti a strappare via la grata da una finestra: da lì, un uomo è riuscito a saltare sul tetto della fabbrica accanto, ha creato una specie di ponte con delle canne di bambù e ha cercato di aiutare quanti più colleghi possibili. Da quell'uscita di fortuna, circa 200 persone sono riuscite a salvarsi più o meno indenni. Le 112 vittime (non 124 come si credeva all'inizio) sono morte nella fabbrica, o nello schianto cercando di fuggire dalla finestra.
Che l'operaio sia riuscito a saltare sul tetto di un altro edificio può sembrare la scena di un film d'azione. In realtà, testimonia il sistema che gira dietro queste fabbriche e le condizioni di lavoro degli operai. Nella zona industriale di Ashulia (periferia di Dhaka), dove sorgeva la Tazreen Fashion, sono centinaia gli stabili di otto, nove, dodici piani che sorgono uno accanto all'altro, senza nemmeno lo spazio vitale per costruire uscite e scale di emergenza a norma di legge. Dentro, la situazione è ancora peggiore: corridoi ostruiti da materiale, stoffe e fili; stanze affollate da vecchi macchinari, con centinaia di persone che vi lavorano 12 ore al giorno, con turni diurni e notturni.
La paga media di un lavoratore non qualificato è di 40 dollari al mese, circa 30 euro. Con tali cifre, sopravvive chi riesce a dividere una stanza con altri colleghi. Pagare l'affitto per una famiglia intera è impossibile. Di solito, gli operai sono giovani provenienti dalle zone rurali: mandano un po' di soldi al villaggio, e sperano di cavarsela e di trovare presto un lavoro migliore. Altri invece sono sposati, ma lasciano la famiglia al villaggio. Chi viene con moglie e figli conduce una vita di estrema miseria, perché non c'è sicurezza di lavorare, né assistenza sanitaria. In modo paradossale, proprio questa condizione di grande precarietà fa sì che trovare lavoro in fabbrica sia facile. Alla fine di ogni mese vi sono centinaia di persone in fila per iscriversi alle liste di attesa. Il mestiere dell'operaio è altalenante: lavorano qualche mese, poi si ammalano o sono troppo deboli per continuare, e lasciano. Altri prenderanno il loro posto: la gente resta disoccupata per breve tempo; intanto, il datore di lavoro ha sempre manodopera disponibile, e a bassissimo prezzo.
Sul rogo alla Tazreen Fashion, il primo ministro Sheik Hasina ha gridato all'incendio doloso, e con lei anche il presidente della Bangladesh Garments and Industrial Workers Federation. Secondo loro, i responsabili sono concorrenti stranieri, che attraverso gente locale tentano di sabotare l'industria bengalese. Per gli analisti, è una possibilità più che concreta: dopo la Cina, il Bangladesh è il secondo produttore di vestiti al mondo, e negli ultimi anni ha dato filo da torcere anche all'India. Tuttavia, non si può escludere che tale teoria voglia nascondere le evidenti e inadeguate condizioni di lavoro in queste fabbriche.
Provocare un'inversione di tendenza è difficile, perché il Bangladesh è considerato il far west dell'industria tessile: dalle ditte straniere, che sanno di trovare manodopera a basso costo e di non incontrare restrizioni, o di poterle aggirare con facilità pagando qualche "mancia" in più; dalle ditte locali, che cercano di riciclare denaro sporco e modi per guadagnare il più in fretta possibile. Nel mezzo, ci sono le persone, che hanno bisogno di lavorare. La campagna ormai non è più in grado di impiegare un alto numero di persone: anche qui sta arrivando la meccanizzazione dei campi, che significa meno manodopera agricola. E, di conseguenza, maggiore bisogno di fabbriche in cui poter trovare lavoro.
La situazione è critica, ma cambiare non è impossibile. I sindacati non sono una via praticabile: oltre ad essere pochi, il vero problema è che per legge non sono liberi e indipendenti, ma solo uno strumento della politica. A fare la differenza, potrebbero essere proprio i grandi marchi stranieri, che acquistano la produzione delle fabbriche bengalesi. Sottoscrivere accordi e contratti solo con aziende che rispettano gli standard di sicurezza e garantiscono diritti di base ai lavoratori, creerebbe un sistema di mercato più funzionale. Perché se un essere umano è costretto a lavorare sottopagato per 12 ore al giorno e quasi senza mangiare, non produrrà tanto quanto un collega che riceve uno stipendio migliore e lavora in condizioni più dignitose.