Profughi da 20 anni, famiglie tamil cattoliche costrette a vivere nella giungla
Mannar (AsiaNews) - Vivono in mezzo alla giungla, per terra, senza un tetto, né una tenda da campo sopra la testa; circondati da elefanti, serpenti e altri animali selvatici. Sono 145 famiglie, 285 tamil cattolici originari del villaggio di Mullikulam, nel distretto di Mannar (Northern Province, Sri Lanka). In teoria, queste persone sarebbero tra i primi gruppi di profughi della guerra civile (Idp - Internally Displaced People) a godere dei programmi di reinsediamento promossi dal governo. In pratica, da più di 20 anni non hanno una casa, né un lavoro per poter vivere. Un gruppo di persone - tra cui due sacerdoti cattolici, un monaco buddista e due membri di ong - ha visitato la comunità e afferma di essere rimasto "sconvolto" dalle condizioni in cui si trovano. "Quale crimine - afferma il ven. Buddhiyagama Chandrarathana thero - può mai aver commesso questa gente, per vivere come animali?".
La popolazione di Mullikulam
I primi insediamenti nell'area di Mullikulam risalgono al 1800. Tamil e cattolica, la popolazione ha sempre vissuto di agricoltura e pesca artigianale. Grazie alla stagione delle piogge, la zona è ricca di acqua, che gli abitanti hanno usato per le grandi coltivazioni di riso. Tuttavia, dall'inizio del conflitto - che ha colpito le province nordorientali dello Sri Lanka -, la comunità ha perso ogni diritto politico, sociale, economico, culturale e ambientale.
La popolazione è stata costretta ad abbandonare il villaggio per la prima volta nel 1990. Nel 2002, con la firma di un accordo di pace grazie alla mediazione della Norvegia, le persone sono tornate nei loro villaggi. Ma nel 2007, al riprendere del conflitto, la gente si è trovata di nuovo senza nulla. "L'esercito - racconta uno sfollato ad AsiaNews, anonimo per motivi di sicurezza - ci disse di lasciare tutta la nostra roba e non portare nulla con noi. Doveva essere solo per tre giorni, poi saremmo tornati nelle nostre case. Sono passati cinque anni". Tutti loro sono stati sparsi tra Thalvuoadu, Valkeipetrankandal, Thalaimannar, Nanattan, Madukkarai e Mannar; mentre nelle loro case vivono altre 400 famiglie.
Perché non possiamo tornare nel nostro villaggio?
Dal 2009, a guerra ormai finita, in tanti si sono adoperati per sostenere la loro causa e chiedere che questa gente venisse reinsediata nelle loro case. Tra molti, anche il vescovo di Mannar, che insieme ad altri vescovi del nord è arrivato fino al presidente Mahinda Rajapaksa. La stessa popolazione ha cercato in ogni modo di attirare l'attenzione delle autorità sul suo caso, ma senza successo. Il governo ha sempre "giustificato" il silenzio in merito sostenendo la necessità di mantenere l'area "zona di alta sicurezza". In realtà, secondo alcuni il problema dipende da un progetto della Marina dello Sri Lanka, che avrebbe scelto di costruire una nuova base navale proprio nell'area di Mullikulam. "Vi lasciamo usare le nostre terre - hanno provato a dire alcuni sfollati -, anche se ci spettano di diritto. Ma almeno, permetteteci di vivere lì vicino".
La soluzione del governo
Dopo numerosi appelli, marce pacifiche e petizioni, nel febbraio 2012 il segretario alla Difesa ha acconsentito a visitare la popolazione, per trovare una soluzione. La risposta delle autorità è arrivata: "Non potete tornare nelle vostre case. Verrete sistemati vicino al villaggio di Mullikulam". Ovvero, nella giungla di Marichchikattu.
"Non avevamo altra scelta - spiega un altro leader della comunità, anch'esso anonimo -, non volevamo più essere un peso per quanti negli anni ci hanno aiutato. Così, il 15 giugno ci siamo trasferiti in questa foresta. La nostra speranza è di poterci insediare nel villaggio di Manangkadu. Ma non abbiamo assolutamente nulla. Dopo 30 anni, dobbiamo ricostruire da capo la nostra vita".
Winifreeda Cross, una pescatrice, racconta: "Ancora oggi, non c'è modo di avere una vita pacifica. Vi sono zanzare ovunque che ci impediscono di dormire la notte. Inoltre, nelle zone intorno è pieno di elefanti. Siamo venuti qui perché abbiamo deciso di sacrificare le nostre vite per il futuro dei nostri figli. Ma abbiamo paura. Se non riusciremo a sopravvivere a queste difficoltà, che fine faremo?".
Tuttavia, i problemi non riguardano "solo" la giungla. La zona in cui vivono ora infatti appartiene al Dipartimento forestale dello Stato. Questo significa che senza una concessione ufficiale, le persone non possono toccare la terra, né per costruire case, né per coltivarla.
"Ci sarebbe la pesca - spiega Francis Joseph, uno dei leader della comunità -, che da sempre è una delle nostre attività principali. La Marina ci ha dato il permesso di pescare nell'area. Ma come facciamo, senza equipaggiamento? Quando siamo stati sfollati, abbiamo dovuto lasciare ogni cosa".
Speranze per il futuro
Dal 15 giugno a oggi, la Marina ha "costruito" due bagni, e dato una cisterna d'acqua potabile, sufficiente per i bisogni minimi di queste persone. Nulla, in confronto ai bisogni reali della comunità. "Servono barche - sottolinea p. Sarath Iddamalgoda, attivista per i diritti umani - reti da pesca, lenze, motori, lampade, zanzariere, razioni di cibo secco, cherosene. Stiamo assistendo a una discriminazione intollerabile, perché senza alcun motivo si impedisce a queste persone di tornare nei loro luoghi d'origine".