Pressioni internazionali e divisioni interne segnano il voto libanese
di Paul Dakiki
Due gruppi di contendono la vittoria: il “14 marzo”, spalleggiato da Occidente e Paesi arabi sunniti, e l’“8 marzo” sostenuto da Iran e Siria. Il successo dell’uno o dell’altro avrà pesanti ripercussioni sull’intero Medio Oriente. Entrambi hanno problemi di compattezza interna.
Beirut (AsiaNews) – Elezioni complicate, incerte e dall’esito con ogni probabilità non decisivo, quelle che si terranno domenica prossima in Libano per eleggere i 128 componenti del Parlamento. A contendersi la vittoria sono in pratica due raggruppamenti, detti del “14 marzo” e dell’“8 marzo”. Il primo, attuale maggioranza, è guidato da Saad Hariri, figlio dell’ex premier Rafic, ucciso nel 2005, ed è composto dai sunniti del partito del “Futuro”, dai drusi del Partito sociale progressista e da alcuni partiti cristiani, in primo luogo la “Falange”. L’“8 marzo” è composto dai due partiti sciiti di Hezbollah e di Amal e dai cristiani del Movimento patriottico libero di Michel Aoun. Nell’uno e nell’altro gruppo ci sono partiti minori.
Il “14 marzo” è filoccidentale - appoggiato in primo luogo da Stati Uniti e Francia, oltre che dai Paesi arabi sunnit, come l’Arabia Saudita - sostenitore della “libanesità”, ossia delle caratteristiche nazionali del Paese dei cedri, dell’applicazione delle risoluzioni dell’Onu che prevedono la permanenza di forze internazionali al confine con Israele e il disarmo di tutte le milizie esistenti nel Paese e del tribunale internazionale che deve individuare e giudicare i responsabili degli omicidi politici avvenuti negli ultimi anni, a partire da quello di Rafic Hariri.
L’“8 marzo” - che alcuni sondaggi danno in leggero vantaggio - è spalleggiato da Iran e Siria, mira al rafforzamento e all’indurimento della “resistenza” antiisraeliana e al sostegno dei movimenti contrari alla pace con lo Stato ebraico, come Hamas. Visto che la sua componente largamente maggioritaria è Hezbollah, è contrario al disarmo delle milizie e certo non favorevole al tribunale internazionale, dal momento che è opinione comune che i responsabili almeno politici dell’assassinio di Hariri siano a Damasco.
Già questo primo approccio alle elezioni libanesi ne evidenzia una prima caratteristica, ossia l’essere di grande peso internazionale. Un successo del “14 marzo” porterebbe con sé la conferma del sostegno e dei crediti occidentali e dei Paesi arabi sunniti, rafforzando le possibilità di manovra nella regione della stessa presidenza Obama e quindi della linea che mira alla ricerca di un compromesso pacifico tra arabi e israeliani.
Al contrario, un governo guidato da Hezbollah rafforzerebbe la presenza iraniana in Medio Oriente e renderebbe estremamente complesso il proseguimento della nuova strategia americana. Non a caso, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha sostenuto che una vittoria dell’“8 marzo” porterà ad un rafforzamento della scelta della resistenza e cambierà la situazione nella regione. Ma non è tutto. Esaminando la stessa ipotesi, il ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha sostenuto che una vittoria di Hezbollah “ci concederà quella libertà d’azione che non abbiamo avuto nel luglio del 2006” (quando ci fu la guerra) e il vicepresidente americano Joe Biden, recatosi a Beirut, ove ha incontrato i leader del “14 marzo”, ha detto in modo piuttosto chiaro che gli Stati Uniti rivedrebbero i loro programmi di assistenza al Libano.
Hezbollah stesso guarda con preoccupazione a tale ipotesi, che metterebbe in crisi lo sviluppo economico del Paese e ha detto che, in caso di sua vittoria, vorrebbe un nuovo governo di unità nazionale, che Hariri ha già respinto.
Gli interessi – e le pressioni – internazionali in realtà hanno un limitato, seppur importante, spazio di manovra. La legge libanese divide in sostanza le circoscrizioni elettorali in base alle appartenenze religiose, per cui è già certo il vincitore della stragrande maggioranza dei seggi. Ne restano in ballo meno di 20 su 128. Saranno questi, alla fine, a indicare il vincitore. E ciò accresce l’importanza di gruppi come i 160mila cristiani armeni, ufficialmente schierati con l’“8marzo”.
Ma chiunque vincerà non avrà vita facile. Entrambi i gruppi sono tutt’altro che uniti al loro interno. Nel “14 marzo” c’è la mina vagante Walid Joumblatt. Il leader druso, che in passato ha più volte cambiato appartenenza politica. Fino a poco fa è stato forse il più duro nei confronti della Siria e dei suoi alleati libanesi, ma ultimamente è sembrato più morbido verso il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Da parte sua, l’“8 marzo” ha il problema dei cristiani. Quelli portati nella coalizione da Michel Aoun – durante la guerra civile il maggior nemico dei siriani – considerano solo tattica l’alleanza con Hezbollah, di cui guardano con timore l’organizzazione militare.
Vedi anche