Polizia indonesiana: dietro gli ulema, movimenti estremisti vogliono dividere il Paese
Il generale Karnavian lancia l’allarme circa possibili infiltrazioni all’interno del Mui. Editti e dichiarazioni vengono “manipolate” per promuovere una ideologia violenta e radicale. Fra i casi recenti, il tentativo di bloccare la rielezione del governatore di Jakarta perché “cristiano”. Il presidente Mui contesta le accuse.
Jakarta (AsiaNews) - Il capo della polizia, gen. Tito Karnavian, lancia l’allarme su possibili “infiltrazioni” e “manipolazioni” all’interno del Consiglio degli ulema indonesiani (Mui), ad opera di movimenti estremisti e di gruppi politici di matrice islamica radicale. Tali formazioni vogliono innescare divisioni, scontri e violenze nel Paese, sfruttando proprio gli editti e le fatwa emesse dai vertici del Mui. Nel tentativo di disinnescare le tensioni, l’appello agli ulema perché si muovano “con prudenza” e “prestino attenzione” nel pronunciarsi su temi politici, sociali, religiosi ed eventi di attualità che possano innescare divisioni nella società.
Gli avvertimenti del gen. Karnavian giungono nel contesto di un seminario pubblico che si è tenuto oggi all’accademia di polizia a South Jakarta; all’incontro erano presenti anche personalità di primo piano del Mui, che si sono confrontate con i vertici della polizia sui temi più importanti.
Secondo quanto affermano personalità di primo piano delle forze dell’ordine, impegnate nella lotta al crimine di matrice estremista, il Mui è “manipolato” da gruppi che sfruttano gli ulema per raggiungere i propri scopi sul piano politico e sociale. Fra questi vi è anche il tentativo di bloccare la rielezione del governatore di Jakarta, nel mirino dell’ala fondamentalista perché “cristiano”.
Il campanello d’allarme si inserisce in un contesto più ampio di insoddisfazione e crescente malcontento da parte di istituzioni e maggioranza musulmana moderata del Paese nei confronti delle (controverse) figure radicali, che promuovono odio e divisione fra fedi ed etnie. Nel mirino anche i gruppi che fomentano l’intolleranza verso i nativi di etnia cinese e i leader politici e istituzionali non musulmani.
Fra i molti esempi del recente periodo la vicenda che ha coinvolto il governatore di Jakarta Basuki Tjahaja Purnama detto “Ahok”, finito a processo per un presunto caso di blasfemia. E ancora, l’attacco contro un funzionario locale di Bantul, costretto al trasferimento perché finito nel mirino dell’ala estremista islamica a causa della sua fede cattolica in un’area a maggioranza musulmana. E, nei giorni scorsi, la protesta organizzata dai nativi Dayak di West Kalimantan, che hanno impedito lo sbarco e la conferenza di un leader islamico radicale (vicino al Mui).
Il capo della polizia indonesiana precisa che questi pericoli non sono il frutto di un parere personale, quanto piuttosto di un “sentire comune” dell’opinione pubblica, basato sugli eventi di questi ultimi mesi. Secondo il gen. Karnavian è un atto un tentativo di “ridurre il ruolo e il prestigio dell’islam mainstream e moderato”, cui si affianca la progressiva escalation di una visione della religione musulmana che “non risponde ai dettami dello spirito nazionale: unità nella diversità”.
Secca la replica del presidente del Consiglio degli ulema Kiai Hajj Maruf Amin, presente all’incontro: i vertici del movimento non hanno mai diffuso dichiarazioni o promosso comportamenti che siano poi sfociati in scontri e violenze in seno alla società.
In questi anni, le autorità indonesiane hanno ceduto più volte di fronte alle pressioni del Mui che svolge un ruolo di “osservatore” dei costumi e della morale nell’arcipelago. Ad Aceh, regione in cui governano i radicali islamici, le donne non possono indossare jeans, pantaloni attillati o minigonne. Nel marzo 2011 il Mui si è scagliato contro l’alzabandiera “perché Maometto non lo aveva mai fatto”; prima ancora aveva lanciato anatemi contro il popolare social network Facebook perché “amorale”, contro lo yoga, il fumo e il diritto di voto, in particolare alle donne.