Pesanti perdite per le ditte cinesi attive in Libia
Con la Libia, 3° maggior produttore di petrolio e 4° maggior produttore di gas naturale africano, la Cina è dal 2009 il 1° partner commerciale, con scambi complessivi di 6,6 miliardi di dollari nel 2010. Ha investimenti diretti per oltre 9 miliardi di dollari, nel 2010 ha importato circa 7,4 tonnellate di greggio, pari a circa 150mila barili al giorno.
Nel Paese erano presenti circa 36mila lavoratori cinesi, impegnati in decine di progetti per un valore complessivo di molti miliardi di dollari: la China National Petroleum cerca giacimenti e realizza oleodotti, la China Communication Construction e la China Railway Construction Corporation progettano e costruiscono linee ferroviarie, la China Civil Engineering Construction cura un progetto di irrigazione nel Sahara orientale, la China Gezhouba Group edifica abitazioni in 5 città meridionali, la Huawei Technologies realizza infrastrutture per la telefonia mobile, e l’elenco può proseguire.
Ora i lavoratori cinesi sono in fuga, molti sono fuggiti a piedi dai loro insediamenti distrutti. Ieri Pechino aveva già fatto partire 12mila persone, mandando persino una fregata, di stanza con la flotta presente nel Golfo di Aden, ad aiutare e proteggere le navi impegnate nell’evacuazione.
La Cina da decenni persegue in Africa una politica spregiudicata, concludendo affari anche con governi dittatoriali, spesso sotto embargo da parte della gran parte degli Stati. Pechino non si limita ad acquistare energia e materie prime, senza preoccuparsi se il prezzo pagato sarà usato per il bene della popolazione o arricchirà il gruppo di potere. In genere concede anche finanziamenti per realizzare edifici e infrastrutture, purché la realizzazione sia poi affidata a proprie ditte.
Lo stesso ha fatto con la Libia. Cosa che ora è costata alle sue aziende, peraltro in gran parte statali, pesanti perdite economiche.
Zheng Wei, professore del dipartimento di Gestione del rischio ed assicurazione presso la Scuola di economia dell’università Peking, osserva che “è una lezione importante per il governo cinese. La Cina deve imparare a considerare i rischi politici globali”.
Esperti osservano che molte attività cinesi in Africa sono fondate sulla personale conoscenza e collaborazione con regimi autoritari. Per cui sono molto vulnerabili a possibili rovesciamenti o cambiamenti di governo.
“Il governo – conclude Zheng – non dovrebbe incoraggiare le compagnie a investire, dovrebbe chiedere una maggior cura e attenzione ai fattori di rischio”. Le ditte cinesi sono molto presenti in altri Paesi con regimi criticati e ritenuti dittatoriali, come Zimbabwe, Angola e Sudan.