Patton: dal Natale al Giubileo, un anno di ‘speranza’ per i cristiani di Terra Santa
Ad AsiaNews il provinciale dei francescani che custodiscono i Luoghi Santi racconta di festività per la seconda volta senza pellegrini, il cui ritorno è “legato alla fine del conflitto”. L’attenzione alle vicende della vicina Siria, fra giudizi “sospesi” o “moderatamente positivi”. La Custodia “sempre più internazionale” con “una sessantina” di Paesi presenti. Il “debito” dei cristiani d’Occidente con i fratelli della Terra Santa.
Milano (AsiaNews) - I fedeli di Terra Santa si preparano “al secondo Natale senza pellegrini” recuperando quella “speranza certa” come la chiamava san Francesco, fondata su Cristo che “è morto e risorto” e ha già mostrato la sua “vittoria sul male, sul peccato, sull’inimicizia”. Così il Custode di Terra Santa, fra Francesco Patton, descrive ad AsiaNews l’attesa di una regione che si appresta a celebrare il Natale fra venti di guerra (da Gaza allo Yemen) e incertezze sul futuro soprattutto nella vicina Siria, col crollo del regime degli Assad dopo oltre mezzo secolo. Una speranza, spiega, che “è il messaggio centrale dell’Anno giubilare” con i cristiani chiamati a “dare un contributo significativo” per “trovare punti di contatto tra componente ebraica e araba della società”, superando “il cortocircuito tra nazionalismo e fondamentalismo religioso”.
Di speranza ha parlato anche il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il card. Pierbattista Pizzaballa, nel suo messaggio per la festa: “Vogliamo che il Natale sia, nonostante tutto, un momento di pace, di gioia e di speranza. Quest’anno il Natale - osserva il porporato - segna anche l’inizio del Giubileo, che è un anno dedicato proprio alla speranza. E di speranza abbiamo estremo bisogno in questa nostra terra, segnata da così tanta violenza, odio, ferita da disprezzo e paura”.
Di seguito, l’intervista a fra Patton:
Siamo alla vigilia di un Natale anche quest’anno di guerra, dopo quello del 2023: come vivono le comunità cristiane questo tunnel senza fine?
I fedeli vivono questo secondo Natale senza pellegrini con maggiore speranza. Già l’inizio dell’Avvento, quando ho fatto l’ingresso a Betlemme nella prima domenica, ho visto che i cristiani erano contenti di sentire che la festa si avvicinava e la chiesa era gremita, con una partecipazione molto forte. Hanno bisogno di speranza, che è anche tema fondamentale dell’Anno giubilare.
La guerra e le crisi si sono allargate, dal Libano alla Siria: la Palestina è una questione dimenticata?
La Palestina è tradizionalmente dimenticata, ma purtroppo non è una novità! Le altre guerre hanno distratto l’attenzione da quello che succede in Palestina, dove vi è una continua erosione di territorio da parte di gruppi di coloni che sono contemporaneamente ultra-nazionalisti e fondamentalisti religiosi, la peggiore miscela possibile. Questo ha portato anche a diversi atti di violenza nel corso dell’anno, che non vengono denunciati con sufficiente coraggio e non vengono di fatto perseguiti. Un po’ come se gli altri fatti servissero anche da copertura per questi.
Cosa ci può raccontare dei francescani in Siria: che valore ha la loro presenza in questo momento e come vivono la fase di cambiamento e di incertezza verso il futuro?
La nostra presenza è plurisecolare in Siria, perché ci siamo dai tempi di san Francesco e in diversi luoghi: Damasco, Aleppo, Latakia e nella valle dell’Oronte, nella regione di Idlib. Parte dei frati ha una visione moderatamente positiva, altri nutrono qualche punto interrogativo e sospendono il giudizio. Nella zona di Aleppo finora non ci sono stati problemi, mentre si registra qualche criticità in più a Damasco, ma anche nella capitale bisogna vedere se col tempo vanno a migliorare. Anche Latakia è abbastanza tranquilla, mentre nell’Oronte - dove prima il quadro era più difficile - ora si è aperto. Vi è una cauta speranza che si possa andare verso una realtà nuova, anche se si deve valutare quanto il leader [Abu Mohammed al-Jolani] delle milizie di Hay’at Tahrir al-Sham (Hts) riuscirà a tenere sotto controllo le varie milizie, se si riuscirà a portare avanti il progetto di far deporre armi, sciogliere le milizie e farle confluire dentro un esercito regolare per tutelare l’integrità nazionale. Infine, bisogna vedere gli altri due passaggi che sono l’elezione dell’Assemblea costituente, che dovrebbe essere più o meno a marzo, e l’elaborazione della nuova Costituzione.
E qui entra in gioco anche la componente cristiana…
Esatto! Qui i anche i cristiani devono giocare un ruolo, perché nella elaborazione della nuova Costituzione è evidente si debba fare attenzione al fatto che vengano recepite le loro istanze, che non si faccia semplicemente una Costituzione in cui si fotocopia la sharia. Ma che sia una carta che sia realmente inclusiva, dove tutte le minoranze vengano rispettate e dove tutti siriani vengano considerati cittadini.
Idlib può essere la cartina di tornasole per la “nuova” Siria?
I rapporti fra i frati presenti nell’area e la leadership locale sono andati migliorando nel tempo, tanto che negli ultimi anni abbiamo visto la restituzione di chiese, di proprietà, e anche un progressivo maggior rispetto dei cristiani. È evidente che questo approccio riveste uno scopo di “politica estera”, ma credo che vi sia anche qualcosa di reale. In Siria ne hanno abbastanza di questa guerra e l’obiettivo è avviarsi verso una transizione. Se la Siria inizia un certo tipo di cammino, poi toccherà ai siriani fare in modo che quel cammino prosegua. Non possiamo pensare di applicare un modello europeo tout-court, devono trovare la loro strada rispettando tutte minoranze, promuovendo l’inclusione, il rispetto per la donna e tutte quelle caratteristiche che l’attuale leader ha detto di voler garantire, ma bisogna sempre aspettare.
In tema di speranza, inizia un Anno Santo che ha proprio questo come elemento centrale: voi come lo vivrete?
Spero che rappresenti prima di tutto qualcosa di molto importante per i cristiani di Terra Santa, perché ritrovino la speranza che hanno perso negli ultimi anni. È necessario che i nostri cristiani tornino ad avere quella che san Francesco chiamava una “speranza certa”, che si fonda sul fatto che Cristo è morto e risorto e ha già mostrato questa sua vittoria sul male, sul peccato, sull’inimicizia. Se dentro la società israeliana e palestinese prevale una visione che alimenta un cortocircuito tra nazionalismo e fondamentalismo religioso, allora non si andrà da nessuna parte. Al contrario, se emerge la tendenza ad includere tutte le componenti della società, allora i cristiani potranno dare un contributo significativo ed essere anche parte di una intellighenzia che aiuta a trovare punti di contatto tra componente ebraica e araba della società.
Un Giubileo che riveste un valore anche economico…
Certo! Il Giubileo avrà anche un significato economico per i cristiani, sempre che finisca la guerra a Gaza e si riapra la via dei pellegrinaggi. Se tornano i pellegrini, essi contribuiranno al benessere dei propri fratelli cristiani. Penso soprattutto a quelli che vivono a Betlemme o a Gerusalemme, ma anche quelli di Nazareth e di altri luoghi dove sorgono santuari significativi. Inoltre, la venuta dei pellegrini è sempre un incoraggiamento perché grazie a loro i cristiani di Terra Santa toccano con mano il fatto di appartenere a una famiglia molto più grande.
I pellegrinaggi rappresentano il cuore dell’esperienza cristiana in Terra Santa: vi è “speranza” di ripresa nei prossimi mesi?
La ripresa è legata fondamentalmente alla fine del conflitto, perché finora sono stati quasi nulli e hanno avuto un impatto irrilevante sull’economia. È una questione molto concreta: le agenzie per organizzare i pellegrinaggi hanno bisogno di polizze assicurative e in tempo di guerra sono molto più alte mentre le compagnie aeree che volano sono poche. Si ritrovano con costi eccessivi e problemi di sicurezza che noi sappiamo essere superabili, ma per chi sta all’estero la paura determina le scelte più della ragione. Da qui la condizione difficile dei tanti cristiani che vivono dell’indotto soprattutto a Betlemme, nella città vecchia a Gerusalemme e a Nazareth.
Lei ha pubblicato di recente un libro: “Come un pellegrinaggio. I miei giorni in Terra Santa”. Quale bilancio può fare di questi anni da Custode e dove guarda al futuro della missione?
Il bilancio è molto positivo perché - nonostante le molte difficoltà di questi anni a partire dalla Siria, poi la pandemia, poi il 7 ottobre e quest’altra guerra - in questi nove anni ho visto che la Custodia ha svolto il proprio servizio fedele al mandato della Santa Sede. E ha continuato a fare quello che è chiamata a fare da secoli, cioè vivere nei santuari, perché se noi smettiamo di vivere nei santuari ritornano terreno per le ortiche, e poi pregare nei santuari e continuare a infondere un senso di fede vissuta rendendo quei luoghi accoglienti per i fedeli. Ancora, continuare in questa esperienza di internazionalità che ha portato ad un allargamento: quando sono arrivato io le nazioni presenti erano un quarantina, adesso sono una sessantina. Questo vuol dire che la Custodia stessa, in qualche modo, rappresenta e raffigura la cattolicità e l’universalità della Chiesa. Certo vi sono state difficoltà, ma anche passi in avanti enormi dal punto di vista della collaborazione fra le Chiese: abbiamo avuto la possibilità di svolgere lavori significativi nonostante le difficoltà economiche, come il restauro dell’edicola del Santo Sepolcro e il restauro del pavimento con tutto lo scavo archeologico. Per questo sento un grande debito di riconoscenza verso il patriarca Teofilos, davvero per me un amico e un fratello, e pure verso il patriarca armeno che, pur con una comunità più debole, ha sempre sostenuto questo tipo di lavori.
Un appello ai cristiani nel mondo, soprattutto in Occidente: cosa si può fare per sostenere e stare vicino ai cristiani in Terra Santa?
È fondamentale che i cristiani dell’Occidente si ricordino che il cristianesimo è nato qui. Il cristianesimo non è nato a Roma, ma è nato a Gerusalemme. Credo che i cristiani di tutto il mondo dovrebbero ricordarsi che hanno un debito con i cristiani di Terra Santa e lo diceva già Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai Corinzi. L’altro aspetto importante è che i cristiani dei Paesi occidentali siano un po’ più attivi nel sostenere i cristiani della Terra Santa e invece di ragionare in termini di respingimenti, dovrebbero pensare un po’ di più in termini di accoglienza. L’augurio è che il Natale sia il momento in cui ci rendiamo conto che la grandezza di Dio è racchiusa in quel bambino deposto nella mangiatoia nella grotta di Betlemme, che sceglie di salvarsi non con mezzi straordinari ma con un bambino disarmato ma che è più potente di qualsiasi esercito.
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07/05/2024 09:19