Parroco di Latakia: viviamo nella paura, alawiti (e cristiani) vogliono fuggire
Fra Fadi Azar, francescano di origine giordana, da cinque anni è parroco della città costiera, un tempo feudo degli Assad, racconta al sito Terrasanta il timore di una “ripresa” della guerra civile. Nella sua testimonianza le fasi più drammatiche della rivolta repressa nel sangue, con migliaia di morti. Colloqui fra Turchia e Israele per scongiurare uno scontro armato sul terreno siriano.
Damasco (AsiaNews) - La paura di una ripresa della guerra civile con altre migliaia di morti, alawiti che vorrebbero convertirsi per cercare di fuggire da una realtà opprimente, il ricordo dei tanti “cadaveri […] per le strade, o uccisi nelle case, bruciati vivi”. È il racconto di fra Fadi Azar, parroco francescano di Latakia, cittadina della costa siriana considerata un tempo roccaforte del regime di Bashar al-Assad dove, nelle scorse settimane, si è consumato un tentativo di rivolta contro la nuova leadership a Damasco. Un’insurrezione repressa nel sangue dalle milizie Hts (Hayat Tahrir ash Sham) e dal neo-presidente Ahmad al-Sharaa, che ha fatto ripiombare il Paese arabo nei giorni più bui del conflitto.
Intervistato dal sito terrasanta.net il parroco racconta che nell’area in cui è diffusa la minoranza alawita (fra Latakia e Tartous), un tempo feudo della famiglia Assad, da un mese si “vive nella paura. Continuano i rapimenti, le sparizioni di persone, di cui le famiglie non sanno più niente”. Una realtà che stride rispetto alla narrazione ufficiale di una leadership che opera per la rinascita del Paese e per l’inclusione di tutte le componenti del Paese, comprese le minoranze fra cui quella curda e la drusa. I nuovi vertici, emanazione del gruppo Hts un tempo legato ai movimenti estremisti islamici e alla galassia jihadista, è ancora lontano dall’assicurare pace e democrazia in Siria.
Fra Fadi è un francescano di origine giordana e da cinque anni, assieme al confratello Graziano Buonadonna, si occupa della cura pastorale dei fedeli della città costiera, quarta per grandezza della nazione. Prima della guerra civile erano circa il 13% della popolazione siriana, ma oggi l’associazione - più o meno debita - con la famiglia Assad ha portato a una stretta identificazione fra gli alawiti e l’ex regime. “Tanti parrocchiani - racconta il religioso - vogliono andare via. Invece di chiederci un aiuto attraverso la distribuzione dei pacchi alimentari o di medicine, o per pagare l’affitto [chiedono aiuto] a ottenere il visto e scappare. Perfino alcuni alawiti si sono presentati dicendo di essere disposti a diventare cristiani pur di essere aiutati a lasciare la Siria”.
Fra i primi bersagli della repressione gli alawiti che lavoravano nel pubblico, con licenziamenti diffusi e l’obbligo per le donne di portare il velo. Per rappresaglia contro la rivolta, che per qualche giorno ha fatto vacillare il potere dei nuovi leader siriani, “sono stati uccisi gli abitanti di interi villaggi e quartieri della città di Latakia” ricorda il parroco. “A Baniyas - prosegue - hanno attaccato anche dei cristiani, rubato le loro auto, hanno fatto furti nelle case, ma non li hanno uccisi. In altre circostanze ci sono state uccisioni, anche di cristiani: Fadi e Antoine Butros, padre e figlio, che si trovavano a Qardaha, anche se non erano originari di lì, sono stati ammazzati. E, poi un ragazzo di 27 anni, Tony Khoury, e il padre di uno studente di Baniyas, sceso sotto casa perché gli stavano rubando l’auto: ucciso. E, ancora, il padre di un sacerdote ortodosso, p. Gregorio. Un altro giovane cristiano è stato catturato a un check-point perché era arruolato nell’esercito dell’ex regime ed è scomparso”.
Paura, mancanza di acqua ed elettricità, il timore di bande e gruppi armati jihadisti, molti dei quali stranieri: la situazione è ancora ben lontana dall’essere pacificata e molti sono i problemi irrisolti. Molti combattenti, sottolinea, arrivano “dalla zona di Idlib [feudo degli oppositori e base della rivolta anti-Assad nel novembre scorso, ndr]. Sono controllati dai servizi segreti turchi. Non vi è un vero controllo del nuovo governo di Damasco”. Infine, il sacerdote lancia un appello alla “pazienza” evitando di “intraprendere percorsi rischiosi, come chi vorrebbe andare in Libano o in Turchia e da lì imbarcarsi per raggiungere la Grecia. La frontiera con la Turchia - conclude - resta chiusa per i siriani e legalmente passa solo per chi ha preso la cittadinanza turca o ha un permesso di residenza in Turchia”.
Sul fronte politico, intanto, in queste ore si registrano i colloqui fra la stessa Turchia e Israele, per scongiurare uno scontro militare fra i due Paesi in territorio siriano in cui sono in gioco interessi e mire contrapposte che potrebbero innescare uno scontro sul terreno. Ankara e Tel Aviv hanno intavolato “colloqui tecnici” per stabilire un meccanismo di de-conflitto in Siria, come ha confermato ieri una fonte dello Stato ebraico. Secondo Channel 12 news, che rilancia quanto spiegato dalla fonte, “verrà istituito un meccanismo simile a quello in atto tra Israele e Russia”. In una riunione di gabinetto il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto ai ministri di non stare cercando un confronto con la Turchia in Siria, ma che non esiterà ad “agire se necessario” per difendersi. In precedenza, il ministro turco degli Esteri Hakan Fidan alla Cnn aveva anticipato colloqui fra i due Paesi sulla questione “quando necessario”, anche a fronte dell’intensificazione dei bombardamenti dello Stato ebraico in Siria. Infine, il capo della diplomazia di Ankara ha precisato che i colloqui sono finalizzati solo alla de-conflittualità in Siria e non mirano alla normalizzazione delle relazioni, con Israele che resta “la più grande minaccia alla sicurezza regionale”.
24/05/2016 08:56