Papa: senza il risanamento delle anime non c’è salvezza per l’umanità
Nella festa dei santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI impone il pallio a 34 arcivescovi, tre dei quali sono dell’Asia. Al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. L’obbedienza alla verità.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “L’immiserirsi” dell’anima “non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità”. E per non immiserirsi occorre “l’obbedienza alla verità”, che “comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo”. Questo il monito che Benedetto XVI rivolge agli uomini nel giorno particolarmente solenne nel quala la Chiesa di Roma celebra i suoi patroni, Pietro e Paolo e nel quale gli arcivescovi metropoliti di nomina recente ricevono dal papa il pallio, la sciarpa che indica la particolare comunione esistente con il capo della Chiesa cattolica. Per tradizione, in questa occasione anche la statua di San Pietro, in basilica, viene vestita con l’abito papale.
La festa degli apostoli Pietro e Paolo vede la presenza in San Pietro di una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, partecipazione che Roma ricambia in occasione della festa di sant’Andrea, patrono del Patriarcato. Ricordandone la presenza, all’Angelus Benedetto XVI ha espresso la speranza che “la comune venerazione di questi martiri sia pegno di comunione sempre più piena e sentita fra i cristiani di ogni parte del mondo”.
Quest’anno sono 34 gli arcivescovi metropoliti, di tutto il mondo, ai quali il Papa impone il pallio. Tra loro, mons. Anicetus Bongsu Antonius Sinaga, arcivescovo di Medan (Indonesia), mons. Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok (Thailandia) e mons. Albert Malcom Ranjit Patabendige Don, arcivescovo di Colombo (Sri Lanka).
Nella sua omelia, Benedetto XVI ha sottolineato alcuni passi della Prima Lettera di san Pietro, a partire dall’affermazione di San Pietro che Cristo è il “vescovo delle anime”. “Se Cristo è il vescovo delle anime – ha evidenziato il Papa - l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il ‘vescovo delle anime’, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita”.
Un’altra frase della lettera petrina: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (3,15), è stata indicata dal Papa come l’affermazione che “la fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede – ha proseguito - proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia – il pensare, da solo, non basta. Così come parlare, da solo, non basta”. “Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora ‘vediamo’ sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli ‘gustava’ il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne ‘uno che vede’. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi”.
“Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1,9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola ‘anima’ è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre ‘la salvezza delle anime’ come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime, san Pietro la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt1,14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula ‘salvezza delle anime’: ‘Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità’ (cfr 1,22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità”.
Benedetto XVI, infine, è tornato a parlare, dopo la reita dell’Angelus, della sua prossima enciclica. “È ormai prossima – ha detto - la pubblicazione della mia terza Enciclica, che ha per titolo Caritas in veritate. Riprendendo le tematiche sociali contenute nella Populorum progressio, scritta dal Servo di Dio Paolo VI nel 1967, questo documento - che porta la data proprio di oggi, 29 giugno, solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo - intende approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella nostra epoca, alla luce della carità nella verità”.
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