Papa: preghiamo “per i nostri fratelli e sorelle Rohinya”
Sono “torturati, uccisi, semplicemente per portare avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana”. La speranza cristiana non è solo personale, ma ha un “respiro comunitario, ecclesiale”: a tutti coloro che la compongono si chiede di pregare gli uni per gli altri e a invocare lo Spirito Santo, perché “è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – La speranza cristiana non è solo personale, ma ha un “respiro comunitario, ecclesiale”: a tutti coloro che la compongono si chiede di pregare gli uni per gli altri e a invocare lo Spirito Santo, perché “è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità”. “La speranza fonte del conforto reciproco e della pace” è stato il tema al quale papa Francesco ha dedicato la catechesi per l’udienza generale di oggi.
Alle settemila persone presenti nell’aula Paolo VI, in Vaticano, il Papa ha anche ricordato la beatificazione, avvenuta ieri, del laico giapponese Justo Takayama Ukon, e l’odierna Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, quest’anno dedicata in particolare a bambini e adolescenti. “Incoraggio – ha detto in proposito - tutti coloro che in vari modi aiutano i minori schiavizzati e abusati a liberarsi da tale oppressione. Auspico che quanti hanno responsabilità di governo combattano con decisione questa piaga, dando voce ai nostri fratelli più piccoli, umiliati nella loro dignità. Occorre fare ogni sforzo per debellare questo crimine vergognoso e intollerabile”. Parlando “di migranti cacciati via, sfruttati”, Francesco ha invitato a pregare “in modo speciale per i nostri fratelli e sorelle Rohinya”, “cacciati via dal Myanmar, che vanno da una parte all’altra perché non li vogliono”. “E’ gente buona, gente pacifica … non sono cristiani, sono buoni, sono fratelli e sorelle nostri. E’ da anni che soffrono: sono stati torturati, uccisi, semplicemente per portare avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana … Preghiamo per loro e vi invito a pregare per loro il nostro Padre che è nei Cieli, tutti insieme, per i nostri fratelli e sorelle Rohinya”.
In precedenza, proseguendo nel ciclo di catechesi sul tema della speranza cristiana, Francesco ha ricordato che “mercoledì scorso abbiamo visto che san Paolo, nella Prima Lettera ai Tessalonicesi, esorta a rimanere radicati nella speranza della risurrezione (cfr 5,4-11), con quella bella parola ‘saremo sempre con il Signore’. Nello stesso contesto, l’Apostolo mostra che la speranza cristiana non ha solo un respiro personale, individuale, ma comunitario, ecclesiale. Tutti noi speriamo. Tutti noi abbiamo speranza, ma anche comunitariamente”.
“Per questo, lo sguardo viene subito allargato da Paolo a tutte le realtà che compongono la comunità cristiana, chiedendo loro di pregare le une per le altre e di sostenersi a vicenda. Aiutarci a vicenda. Ma non solo aiutarci nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana, ma aiutarci nella speranza, sostenerci nella speranza. E non è un caso che cominci proprio facendo riferimento a coloro ai quali è affidata la responsabilità e la guida pastorale. Sono i primi ad essere chiamati ad alimentare la speranza, e questo non perché siano migliori degli altri, ma in forza di un ministero divino che va ben al di là delle loro forze. Per tale motivo, hanno quanto mai bisogno del rispetto, della comprensione e del supporto benevolo di tutti quanti”.
“L’attenzione poi viene posta sui fratelli che rischiano maggiormente di perdere la speranza, di cadere nella disperazione. Ma noi sempre abbiamo notizie di gente che cade nella disperazione e fa cose brutte, no? La ‘dis-speranza’ li porta a tante cose brutte … Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è avere pietà: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a quello che soffre con una parola, una carezza, ma che venga dal cuore, eh? Quella è la compassione! Hanno bisogno del conforto e della consolazione. Questo è quanto mai importante: la speranza cristiana non può fare a meno della carità genuina e concreta. Lo stesso Apostolo delle genti, nella Lettera ai Romani, afferma con il cuore in mano: «Noi, che siamo i forti – che abbiamo la fede, la speranza o non abbiamo tante difficoltà – abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (15,1). Portare, eh? Portare le debolezze altrui. Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono: il cristiano mai può dire: me la pagherai. Mai! Questo non è un gesto cristiano! L’offesa si vince con il perdono; a vivere in pace con tutti. Questa è la Chiesa! E questo è ciò che opera la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore. E l’amore è forte e tenero. E’ bello”.
“Si comprende allora che non si impara a sperare da soli. Nessuno impara a sperare da solo. Non è possibile. La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda. Questo allora vuol dire che, se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e sorelle ci hanno insegnato a sperare e hanno tenuto viva la nostra speranza. E tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e quello non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto… A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite. Sono questi nostri fratelli a darci la testimonianza più bella, più forte, perché rimangono fermi nell’affidamento al Signore, sapendo che, al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace. Chi spera, spera di sentire un giorno questa parola: ‘Vieni, vieni da me, fratello; vieni, vieni da me, sorella, per tutta l’eternità’”.
“Cari amici, se — come abbiamo detto — la dimora naturale della speranza è un “corpo” solidale, nel caso della speranza cristiana questo corpo è la Chiesa, mentre il soffio vitale, l’anima di questa speranza è lo Spirito Santo. Senza lo Spirito Santo non si può avere speranza. Ecco allora perché l’Apostolo Paolo ci invita alla fine a invocarlo continuamente. Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. E’ più difficile sperare che credere, eh? E’ più difficile. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere, che il Signore è vicino e si prende cura di noi; ed è Lui a modellare le nostre comunità, in una perenne Pentecoste, come segni vivi di speranza per la famiglia umana”.