Padre Gheddo ricorda l’abbé Pierre
di Piero Gheddo
Il suo straordinario esempio di totale donazione ai poveri rimane tale, nonostante il suo spirito critico l’abbia portato spesso all’opposizione.
Roma (AsiaNews) - Con l’abbé Pierre, morto ieri a 94 anni, scompare una delle icone della carità cristiana più conosciute e amate nel mondo intero. Basti dire che le sue “Comunità Emmaus”, iniziate nel 1949 a Parigi, sono oggi 191 in Francia e 421 nei quattro continenti di Europa, America, Africa e Asia (Filippine, India, Bangladesh, Thailandia e Giappone); in quest’ultimo continente il movimento Emmaus è richiesto in vari paesi (anche in Oceania) e sta diffondendosi rapidamente. La vita sacerdotale dell’abbé Pierre, tutta spesa per aiutare i più poveri, i marginali, i rifiutati dalla società, dopo l’ultima guerra mondiale (nella quale aveva partecipato alla resistenza francese) è stata orientata non solo all’azione politica e sociale per ottenere dallo Stato francese una maggior giustizia e assistenza per i poveri, ma soprattutto a creare una “coscienza sociale” nei francesi, suscitando collaborazione alle opere concrete che stava facendo con le sue comunità Emmaus. Quando lancia nel 1954 la prima campagna nazionale “Insurrezione della bontà”, il successo immediato dell’iniziativa lo spinge ad allargare il raggio della sua azione e ad approfondire i contenuti evangelici non solo delle comunità, ma del movimento di opinione pubblica che si stava creando.
Nel 1963, quando a Milano fondammo Mani Tese come associazione di aiuto ai missionari per le loro opere in favore dei poveri, due missionari del Pime andarono a Parigi ad invitare l’abbé. Venne a Milano, una delle prime volte in Italia, e parlò in diversi ambienti e in radio e televisioni. Il suo discorso era questo: insisteva sui motivi fondamentali della “Campagne contro la fame nel mondo” che allora in Italia era attivissima e coinvolgeva ogni ambiente anche laico, scuole, aziende, giornali, associazioni di vario genere: la carità cristiana dell’amore al prossimo, la giustizia distributiva verso chi ha molto meno di noi, la rinunzia al superfluo per dare a tutti il necessario e infine “non si tratta solo di dare, ma di dare e ricevere” dai poveri i valori umani che essi testimoniano. Lo slogan lanciato dall’abbé in quell’occasione era: “La nostra felicità consiste nel procurare la felicità degli altri”. E al consiglio direttivo di Mani Tese, formato da cinque laici e due missionari ripeteva: “Rimanete fedeli allo spirito della fondazione e ai missionari, che sono i ponti privilegiati di aiuto e di scambio culturale con i popoli poveri”. Concetti che colpivano a quel tempo, perché portavano orientamenti nuovi al tema della “fame nel mondo”, orientata quasi solo a suscitare commozione ed a raccogliere denaro.
Nel 1996 l’abbé suscitò scandalo per aver appoggiato un libro dell’amico Roger Garaudy (convertito all’islam), che negava l’Olocausto degli ebrei e allineava i motivi per cui Israele non avrebbe dovuto esserci. Nel 2004 ancora i mass media mondiali si occuparono di lui pechè in un suo libro (“Mio Dio, perché?”) rilanciava il sacerdozio femminile, sconfessava l’importanza del celibato sacerdotale e spezzava una lancia in favore dei matrimoni gay. Ma tutte queste “parole in libertà” (a cavallo dei novant’anni) non hanno diminuito, anche nella Chiesa e fra i credenti, la venerazione per l’abbé il cui buon esempio di totale donazione ai poveri rimane tale, nonostante il suo spirito critico che l’ha portato spesso all’opposizione. Credo che l’abbé Pierre, i suoi scritti, i discorsi e lo spirito delle sue comunità, vadano studiati e diffusi perché è sempre attuale un ritorno al Vangelo e alle motivazione spirituali e culturali che ci spingono ad operare nell’”unica guerra possibile, quella contro la fame e la miseria”.
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