P. Samir: Islam nella paralisi e nella guerra; occidente senza memoria
Città del Vaticano (AsiaNews) - Per l’ottobre 2010 Benedetto XVI ha indetto un Sinodo delle Chiese nel Medio oriente. Per prepararsi ad esso con cura è necessario cercare di comprendere la situazione in cui è immersa questa parte del mondo, per poi passare ai problemi che le Chiese stanno soffrendo.
In generale, la situazione del Medio oriente sembra immobile e senza frutti. Lo scorso anno a novembre in Vaticano si è tenuto il simposio cattolico-islamico, che ha radunato decine di personalità musulmane e cristiane altamente qualificate. Il risultato è stato una dichiarazione con ottimi spunti sulla difesa della libertà religiosa, la condanna del terrorismo, la scelta della convivenza. Ma dopo un anno non si vede ancora nessun risultato, nessun seguito a quel bell’incontro Lo scorso anno, anche l’Arabia saudita, aveva lanciato alcuni importanti messaggi, con passi verso il dialogo con le altre religioni, ma non ha modificato la situazione interna al Paese riguardo alla libertà religiosa o di culto.
Islam nella paralisi
Tutto il nostro mondo è in attesa e il mondo islamico è in una situazione di paralisi. Tale paralisi è dovuta alla divisione. Il mondo islamico è diviso sulla questione Israele – Palestina. Gli Stati più ragionevoli affermano che non c’è altra strada che il dialogo. D’altra parte Israele non dà nessuna possibilità di dialogo; e gli altri – che propongono una politica dura – sono anch’essi paralizzati.
In Iraq la situazione non migliora, ma si continua una lotta che ha spesso la forma di guerra fra sunniti e sciiti. A a un livello più grande essa si rispecchia nella lotta fra Iran e Arabia saudita, Paesi rappresentativi delle due correnti islamiche.
Nelle scorse settimane vi sono state perfino delle minacce reciproche. L’Iran ha detto che gli iraniani devono approfittare del pellegrinaggio alla Mecca per rilanciare la jihad e liberare la Palestina; l’indomani l’Arabia saudita ha detto che durante il pellegrinaggio non ammetterà alcun raduno o gesto che non sia spirituale. Era una chiara minaccia all’Iran, pur senza nominarla. Anche la guerra alla frontiera fra Arabia e Yemen è una guerra fra sunniti e sciiti. La condanna a morte da parte dell’Arabia Saudita di Ali Hussein Sbat, libanese originario d’al-Ain nella Beqaa, per l’accusa di stregoneria, è stata interpretata come una vendetta sunnita contra lo sciismo.
La Palestina è paralizzata nella divisione fra Gaza e la West Bank; il Libano per più di 4 mesi è rimasto senza governo – un fenomeno mai successo prima. È una paralisi generale.
In questa immobilità, l’unico a muoversi è Israele, che continua ad occupare nuove colonie nei Territori occupati, fino a colpire al cuore il problema palestinese. Il modo in cui nascono gli insediamenti ebraici non permetterà in futuro alcuna contiguità geografica fra Gerusalemme e il resto della West Bank, rendendo difficile un futuro Stato palestinese e Gerusalemme est come sua capitale. Tutto questo avviene con il silenzio - o qualche blanda critica formale – da parte di tutti, Paesi islamici e Paesi occidentali, fra cui gli Stati Uniti. È davvero una sconfitta del diritto.
Anche la questione iraniana è molto delicata. È chiaro che l’Iran gioca al gatto e al topo, dicendosi disponibile al dialogo e poi facendo qualche passo verso il nucleare, anche bellico.
Ma d’altra parte, come fare a condannare l’Iran quando altri Stati nella regione (in particolare Israele) hanno la bomba atomica? Come si può accettare che qualcuno proibisca a un altro di compiere i passi che io ho già fatto? L’unica giustificazione che si dà è: “noi siamo buoni, voi siete cattivi”. Ma chi mi dice che dopo di te non vi sarà qualche “cattivo”?
Tutte le soluzioni sembrano bloccate senza alcuna via di uscita.
La violenza nell’islam e il malessere
A ciò si aggiunge un problema di fondo: il mondo musulmano sente una paralisi ancora più grave. Nei giornali e su internet i musulmani si domandano: Cosa abbiamo prodotto in tutti questi secoli? Che contributo abbiamo dato alla civiltà? L’unica cosa che abbiamo è qualcosa che non abbiamo costruito noi, cioè il petrolio. Per altri la risposta è: abbiamo la fede in Dio. Ma questo è un bene difficile da valutare…
Nasce così un sentimento di rabbia contro se stessi e contro chiunque. Guardando il mondo islamico, ho l’impressione che gli unici eventi che fanno notizia sono i fatti di violenza. Avviene nelle Filippine, nella lotta politica fra due capi musulmani; in Iraq, dove ormai le bombe sono non più contro gli americani, ma fra di loro; in Sudan, in Somalia, in Pakistan, in Afghanistan; in Iran dove iraniani combattono contro iraniani. Tutto il mondo islamico soffre poi di mancanza di libertà, in Iran come in Tunisia.
Pensiamo alla conclusione dell’incontro di calcio fra Algeria ed Egitto, finito anch’esso in violenza… Alla fine sembra che l’unica cosa che l’islam sappia produrre sono massacri e violenza.
Tutto ciò è frutto di un malessere profondo dell’islam in Medio oriente, in Africa del Nord, nel Corno d’Africa, ecc.
Ormai non si può dire che la colpa di ciò è il passato colonialismo. I Paesi di cui parliamo avevano conquistato da tempo strutture più o meno solide, più o meno democratiche. Non è più possibile nascondere questa crisi culturale, sociale e politica del mondo islamico.
L’unica cosa che progredisce è il rigorismo religioso, non solo nella devozione, ma in forme visibili: il velo, la barba, gli obblighi… Tutti i musulmani che tornano in Egitto dopo diversi anni, dicono che non riconoscono più il loro Paese per l’asprezza con cui si vivono le cose quotidiane. È vero che le moschee sono più piene, anche di giovani, ma la dottrina che viene offerta non è una formazione intellettuale o spirituale all’islam. È molto più un crescendo di odio contro gli altri, contro i pagani e contro i musulmani meno radicali.
La crisi dell’occidente
Di fronte a questa crisi dell’islam, l’occidente ha coscienza chiara ed equilibrata della sua identità? Secondo me sempre di meno. Il caso rivelatore è la decisione della Corte europea dei diritti umani che all’unanimità – un fatto rarissimo in questi casi – ha condannato l’esposizione in Italia dei crocifissi perché ciò non rispetta la neutralità e la laicità dell’Europa.
Anche mettendo da parte la religione, questo simbolo fa parte della cultura italiana (che ovviamente ha una dimensione religiosa). Come si può dire perciò che l’esposizione del crocifisso viola la libertà? Una statistica di qualche anno fa diceva che il 77% degli italiani apprezza l’esposizione del crocifisso. Anche il filosofo e uomo politico veneziano, Massimo Cacciari, agnostico, ha parlato del crocifisso come del più importante simbolo che abbiamo di un amore che si dona per salvare un altro.
La decisione della Corte europea, negando il crocefisso, ha negato se stessa: è un attentato contro se stessi. Se negare la Shoa è un negazionismo storico, questa decisione è un negazionismo della propria cultura. Il fatto grave è che a livello europeo – esclusa l’Italia - nessuno ha reagito.
In occidente c’è poi un altro atteggiamento, uguale e contrario, che afferma se stesso negando l’identità degli altri, quello dei neo-nazi. Questi atteggiamenti vanno di pari passo, uno suscita l’altro. Ma ciò avviene perché la gente ha sempre meno coscienza di sé.
Ci troviamo perciò di fronte a due crisi: quella della cultura del mondo islamico e quella del mondo occidentale, entrambe nella paralisi. L’unico possibile rapporto fra due strutture ferme e chiuse è un rapporto di forza o di esclusione.
L’occidente tende a uscire da questa immobilità anche con l’idea della tolleranza e del multiculturalismo: la mia identità – esso dice – sono tutte le culture. Ma questo è un atteggiamento concettuale: io posso apprezzare tutte le culture solo a partire dalla mia; se io dico che “ho” tutte le culture, significa che non ho nulla. Invece, se io so chi sono, sono pacifico, sereno, fiero. Solo in questo modo possiamo dialogare. Ma se non c’è niente, vince solo chi grida di più o chi ha più potere materiale.
I segni di speranza nell’islam
L’unica speranza che io vedo nel mio mondo medio-orientale, è l’atteggiamento di chi dice “Basta!”. La gente non vuole più essere presa in giro, usata come pedine. Questo è evidente in Iran, con le manifestazioni “verdi”, ma anche in Egitto, dove c’è perfino un partito che si chiama proprio “Kefâya”, cioè Basta! Questo partito è nato come critica alla “dinastia” di Moubarak, che dopo 28 anni di regno vuole mettere il figlio Gamal al suo posto. Lo stesso si può dire in Algeria, in Senegal…
La reazione si vede anche nella molteplicità dei forum che appaiono su internet, o sui giornali stampati. Certo, diversi siti internet musulmani rivendicano alcune prospettive nuove; vi sono musulmani atei, riformisti, ecc.., ma nessuno li sostiene. Ognuno di essi lancia un messaggio, un grido, una, dieci volte, ma poi si stanca e torna nel silenzio.
Un mese fa a Berlino vi era un convegno dei “progressive Muslims”, dei musulmani liberali. All’interno vi erano musulmane femministe, un gruppo di esegeti del Corano (fra cui Nasr Hamid Abu Zaid), altri politici. Il convegno è stato molto esplicito e vivace. Ma dopo, quando tutti ritornano alle loro case, non fanno più nulla perché essi sono una goccia nell’oceano. Su un miliardo e 200 milioni di musulmani nel mondo, queste menti liberali che scrivono e pensano, saranno 10 mila, 20 mila: meno dell’1 per mille.
Gli imam e la fatwa
La reazione sta certo crescendo e forse si arriverà a un’esplosione, come è avvenuto in Unione sovietica, ma ci vorrà molto tempo. La differenza fra l’Europa dell’est e noi è che qui non vi è un Muro di Berlino, ma un muro di ignoranza. La tristezza infatti è che i responsabili dell’Islam sono incapaci a risolvere i problemi, anzi li accrescono. La maggior parte di essi è stata formata nella più antica università islamica del mondo, Al Azhar, dove ogni anno entrano fino a 150 mila imam. Ma a cosa sono formati? A ripetere l’antico, non ad affrontare la modernità. L’unica cosa che propongono è tornare all’indietro, al VII secolo. A furia di ripetere, vi riescono pure, ma forse nemmeno l’1% di loro riesce a discutere con la modernità, valutando pro e contro, valori e disvalori.
La cosa che si diffonde è lo stile della fatwa, un metodo che permette di non pensare. Se ho un problema domando via telefono all’imam, pago 1 euro o 2, e domani ho la risposta pronta.
Gli imam incatenano i fedeli a ciò che l’islam ha detto nei primi secoli; manca un’autorità morale che mi aiuti ad affrontare oggi la mia situazione.
Un uomo d’affari musulmano vivendo in Germania chiede se può avere un pranzo d’affari con degli amici cristiani. Le risposte dei suoi imam mufti sono state diverse e opposte: uno gli ha detto che secondo il Corano mangiare con i cristiani è “halal”, lecito. Un altro – il famoso imam Yusuf Qaradawi del Qatar - gli ha proibito di farlo perché i tedeschi oggi “non sono autentici cristiani”. Chi afferma questi giudizi, non è una persona che ha vissuto insieme agli occidentali fino a capirli e valutarli: il giudizio è preso a partire da un testo, accresciuto da un pregiudizio.
Di per se, la fatwa è un buon strumento per far evolvere l’islam e permettere l’aggiornamento della religione. Ma corre anche due rischi: da una parte, di bloccare l’evoluzione, perché si ritorna spesso a dei modelli antichi; e d’altra parte, di creare infantilismo fra i fedeli, che non riflettono più personalmente, ma cercano risposte pronte dai mufti.
I segni di speranza in occidente
Anche in Occidente vi sono segni di speranza, che criticano l’immobilismo. Vi sono quelli che combattono per un’etica più liberale (che talvolta sconfina con il permissivismo), ma a tutti i livelli vi è dibattito sui valori, su questioni con diverse posizioni.
Pensiamo ad esempio agli immigrati in Europa. Da voi vi è chi lotta per dare ad essi il diritto di residenza, di voto, ecc; altri che invece frenano. Il prossimo 1° marzo in Francia, tutti gli immigrati faranno uno sciopero generale, per mostrare quanto essi pesano nell’economia, chiedendo più diritti per loro.
Invece nel nostro mondo medio-orientale, gli immigrati sono trattati come bestie, senza alcun diritto e non trovano nessuno che li difenda. Si può dire che su qualunque punto l’occidente discute, si interroga, va a fondo dei valori filosofici-spirituali. Fra noi in Medio oriente vi sono solo discussioni di tipo politico, ma per il resto vi è silenzio. Nel gennaio scorso, durante l’attacco contro Gaza, su un invito di un gruppo islamico sciita, in un convegno ho accennato al problema israelo-palestinese, sottolineando che era urgente il dialogo. Mi hanno subito fermato, dicendo che quel tema non andava toccato.
Islam e occidente hanno bisogno l’uno dell’altro
Il dialogo fra il mondo islamico e l’occidente non si fa quasi per nulla. Eppure è sempre più evidente che ognuno ha bisogno dell’altro dal punto di vista culturale e economico.
La crisi di entrambi è perciò un’occasione di ripensamento più a fondo. Ma la condizione è una chiara coscienza di sé e la percezione che ciò che è da fare è da fare insieme.
Il mondo musulmano, da solo non regge perché rischia di rimanere fuori della modernità e inghiottito dalla violenza. L’occidente da solo non ce la fa, perché anche se più formato dal punto di vista intellettuale, non ha le braccia per lavorare, a causa della caduta demografica. Qui emerge l’immagine di san Paolo nella 1 Cor 12: “L’occhio non può dire io sono migliore di te”; e a cosa serve l’occhio senza il resto del corpo?
La globalizzazione del mondo, la crisi dei mutui in America, ha creato un’ondata mondiale. Ciò che succede nell’economia, succede anche nella cultura, ideologia, fede: siamo nella stessa barca; se la barca affonda, tutti periscono.
La sapienza è dire: ascoltiamo cosa dicono i musulmani, cosa sono le loro lagnanze, cosa è buono nelle loro proposte e cosa non è applicabile. E viceversa.
Il dialogo è fondamentale per la situazione attuale in Europa, dove sempre più vi sono comunità musulmane. Ma è un’occasione anche per i musulmani a ripensare cosa significa vivere in occidente, in una situazione di accoglienza, ma anche di minoranza. Ed essendo una minoranza, non possono comportarsi in tutto come nei Paesi islamici, dove essi sono la maggioranza.