24/05/2007, 00.00
TURCHIA
Invia ad un amico

Ombre e dubbi dietro al kamikaze di Ankara

di Mavi Zambak
L’accusa contro i curdi del PKK è arrivata fin troppo rapidamente ed il gruppo terrorista la nega decisamente. L’attentato giunge dopo una serie di violenze che sembrano mirate a fermare il processo di riforma che faticosamente il Paese sta portando avanti.

Ankara (AsiaNews) - Gunes Akkus, ventotto anni di Sivas, pregiudicato, due anni di prigione per aver partecipato a scontri in piazza a Istanbul il primo maggio del 1996 contro la polizia. Militante nel Partito illecito rivoluzionario turco di unità comunista (TIKB). Scontata la pena, i suoi familiari lo pensavano all’estero, in Olanda, da nove anni. Questo il kamikaze che martedì sera alle 18.45 si è fatto esplodere in un grande magazzino nel cuore della zona commerciale storica di Ankara, la capitale della Turchia.

A pochi passi da questa palazzina di cinque piani, è allestita in questi giorni l’annuale Fiera internazionale dell’industria della difesa, dove era prevista proprio quella sera la partecipazione di numerose personalità militari straniere, per il cocktail di inaugurazione.

Uno scoppio violento, vetrine in frantumi, il primo piano crollato, sei morti e un centinaio di feriti e subito l’intervento del capo di stato maggiore Yasar Buyukanit che, guardando l’edifico sventrato, non esita ad affermare che è un lavoro da professionista, un’esplosione provocata da una bomba sofisticata ad alto potenziale. Qualche ora più tardi gli artificieri dicono di aver trovato tracce di plastico A-4, esplosivo usato in altri atti terroristici rivendicati dai separatisti curdi del PKK e subito si insinua pesantemente il dubbio che anche questa deflagrazione porti la firma del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), movimento separatista e terrorista capeggiato da Ocalan - attualmente in carcere su un isola nel mar di Marmara - che dal 1984 ha colpito a morte più di trentamila tra militari e civili.

Ieri con estrema fermezza però questo partito ha negato qualsiasi responsabilità nell’attentato suicida di questo pregiudicato, attentato che ha causato la morte di gente comune: un giovane recatosi al magazzino di abbigliamento per comprarsi il vestito di nozze, un diciannovenne che gironzolava prima di partire per il militare, una commessa che con il suo stipendio manteneva la famiglia, un venditore di orologi…

“Non abbiamo nessun collegamento con l’attentato ad Ankara”, ha dichiarato il gruppo separatista in una dichiarazione pubblicata sul sito dell’agenzia stampa Firat (“Eufrate”).

Perché non crederci?

Così rimane il grande interrogativo sul movente di questo attacco cruento e spietato, che avrebbe potuto essere anche più disastroso, se, come secondo alcune supposizioni, il bersaglio sarebbe stata la Fiera degli armamenti e Gunes si fosse fatto esplodere prima per il panico nel vedere un poliziotto venirgli incontro.

Chi ha fornito l’esplosivo, cosa ha spinto questo giovane a compiere questo atto, rimane ancora un mistero. Certo è che ormai i curdi sono sempre immancabilmente il capro espiatorio. E oggi quotidiani come il Gunes hanno a tutta pagina il titolo: “PKK, ecco cosa sei” ed elencano nei dettagli le povere esistenze di chi ha perso la vita nell’esplosione.

Mentre purtroppo si sa che in questa terra i metodi violenti vengono sempre più spesso usati un po’ da tutti: la parte laica, la parte islamica, il PKK, i “lupi grigi” e gli “hezbollah”. Un sintomo preoccupante: nonostante ci sia lo sforzo concreto di riforme democratiche, i metodi violenti non si sono arrestati, anzi, sembra che abbiano preso forme nuove per colpire e ostacolare proprio questo processo di democratizzazione (bombe contro le sinagoghe in Istanbul nel 2003, uccisioni di cristiani, uccisioni in tribunale, uccisioni di giornalisti e minacce a liberi pensatori).

Sicuramente in Turchia è in atto una trasformazione sociale tale da modificare le tradizionali relazioni tra politica, esercito, Stato e società. L’autorità istituzionale è in crisi e in queste trasformazioni ci sono settori sociali che realmente stanno perdendo il loro status e temono di perdere il proprio potere di fronte ad una società sempre più aperta, competitiva, emancipata, libera da strutture tradizionali e paralizzanti e così queste fasce sociali cercano di legittimare le proprie resistenze condannando la perdita della laicità, arroccandosi su posizioni conservatrici e autoritarie.

Fin troppo bene nelle settimane scorse abbiamo assistito alle interferenze e alle minacce dei militari di fronte alla crisi politica turca. Già in passato il pericolo del comunismo è stato usato per legittimare interventi armati nella società turca, da tempo si ostenta la minaccia del separatismo curdo, pur sapendo che ripetutamente i curdi hanno chiesto un dialogo e una soluzione pacifica alla loro complessa e articolata “questione”.

Ci si chiedeva quali sarebbero state le prossime vittime: e amaramente si constata che stavolta è toccato alla parte laica della nazione, la parte comune e più indifesa.

Un interrogativo inquietante serpeggia tra la gente: se come scriveva ieri il giornale Sabah già da due mesi e mezzo erano state annunciate per fine maggio azioni di violenza terroristica contro luoghi turistici, centri commerciali o autobus; se è vero che nell’arco di due mesi sono stati sequestrati dalla polizia duecento chilogrammi di esplosivo in una serie di raid contro militanti del Partito dei lavoratori curdo; se questo centro commerciale si trova così vicino alla Fiera internazionale degli armamenti, zona a rischio, dunque; se come dicono non può trattarsi di un kamikaze suicida isolato, ma di un’organizzazione terroristica, come mai questo atto non è stato previsto e bloccato, così come oggi la polizia si vanta di aver arrestato ad Adana una donna 31enne con 11 chili di esplosivo in borsa?

Tutte le attenzioni ora sono concentrate sulla tesi dell’attentato nato negli ambienti del separatismo curdo, ma forse non sarebbe più opportuno volgere lo sguardo su quello che in Turchia è noto come Stato profondo e che in Italia si chiamerebbe lo Stato nello Stato? Quell’intreccio tra apparati di sicurezza, ambienti nazionalisti e organizzazioni criminali dedito alla destabilizzazione della nazione per creare spaccature tra governo, militari e popolazione e rompere così il difficile equilibrio del processo di riforme in atto, con atti terroristici che di volta in volta possono colpire un sacerdote cattolico straniero, oppure il quotidiano “Cumhurriyet” (Repubblica), storico bastione del laicismo kemalista; uccidere un giudice della Corte di cassazione per aver confermato il divieto al velo, far esplodere bombe tra i curdi pacifisti o nel cuore attivo della capitale, o ancora uccidere un giornalista armeno o missionari protestanti? Non a caso sono tutte azioni che fanno alzare la tensione e insinuano il dubbio sulla capacità del governo di mantenere il carattere laico della repubblica e rischiano di legittimare ancora una volta la strada della (ri)militarizzazione della società e della politica turca, per garantire la sicurezza sociale, senza tentare nuovi percorsi più democratici ed orizzonti più ampi.

 

TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
Attacco suicida nel centro di Istanbul
19/03/2016 13:07
Ancora nessuna rivendicazione per l’attentato di Ankara. Il governo sospetta i curdi
14/03/2016 08:34
Ankara colpita da un’esplosione: almeno 34 morti e 125 feriti
13/03/2016 22:30
Candidati indipendenti: una spina nel fianco per il governo turco
18/07/2007
Erdogan vuole rimpatriare un milione di siriani prima delle elezioni
11/05/2022 10:21


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”