Nuove violenze a Mosul: padre e figlio uccisi perché cristiani
Mosul (AsiaNews) – Il governo iracheno invita i cristiani a rimanere in Iraq, ma non fa nulla per interrompere le stragi. Ieri a Mosul, nel quartiere di Sanaa, sono stati uccisi padre e figlio: al momento non si conoscono ulteriori dettagli sulle modalità dell’attacco e sull’identità delle due vittime, ma la causa della loro morte è da collegare alle violenze delle ultime settimane contro i cristiani in città.
Il pogrom dei cristiani iracheni è ripreso all’inizio di ottobre e in un paio di settimane ha già fatto registrare 14 morti, oltre 10mila persone in fuga dai massacri, in direzione della piana di Ninive, e cinque case distrutte da attacchi bomba. Negli ultimi giorni sembrava regnare una calma apparente, tanto che erano stati lanciati appelli in cui si chiedeva agli esuli di "ritornare nelle proprie case". Secondo una fonte di AsiaNews a Mosul, l’assassinio di ieri potrebbe essere “un segnale lanciato dai terroristi o da frange estremiste ai cristiani” ai quali viene ribadito che “devono abbandonare la città”.
Se a Mosul quasi metà della popolazione cristiana ha lasciato la città per paura delle violenze, dal premier iracheno Nuri al-Maliki arriva l’invito a “restare” e a “collaborare per la ricostruzione del Paese”. Ieri il primo ministro (nella foto) ha incontrato una delegazione di leader religiosi ai quali ha confermato che “le violenze di Mosul fanno parte di un preciso piano politico interno al Paese”, anche se non specifica nel dettaglio chi è responsabili degli attacchi.
Al Maliki chiede di “non cedere al piano criminale” e di restare nella terra irachena per contribuire alla ricostruzione del Paese: per far questo auspica che vi sia "l’aiuto e la collaborazione di tutta la società", perché siano "gli iracheni stessi a sconfiggere quanti vogliono trascinare la nazione nel caos e azzerare la presenza cristiana". Il premier ha inoltre promesso che i colpevoli “verranno puniti” e con loro verranno fermati “anche i fiancheggiatori”, colori i quali offrono appoggio, aiuto e protezione, o che si rendono conniventi dei massacri.
Il premier promette infine che “verrà allargata la presenza dei cristiani all’interno delle forze di sicurezza e nella polizia, anche a livello di ufficiali”: un rango, quest’ultimo, da sempre riservato ai fedeli musulmani. Al Maliki ribadisce che la presenza cristiana all’interno dell’esercito dovrebbe aiutarli a "restare nelle loro case e nelle loro terre”, sentendosi più sicuri e protetti. Egli ricorda che la distruzione della comunità sarebbe “un danno enorme per tutto il popolo iracheno” e invita il Ministero iracheno per i migranti a fare di tutto perché “si possa agevolare il loro rientro a casa”.
Ieri mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, aveva denunciato nuovamente la campagna di sterminio contro i cristiani sottolineando “il gioco politico legato alle prossime elezioni” e al progetto, da sempre osteggiato, della creazione “di una enclave cristiana nella piana di Ninive”. Ora si tratta di capire quali mosse farà, in termini concreti, il governo centrale per difendere i cristiani dalle persecuzioni. Il 21 ottobre una delegazioni di fedeli di Mosul ha incontrato alcuni leader politici locali e nazionali fra cui il vice-premier, Rafeaa al-Eissawi, il sindaco della città e il governatore di Ninive. Al vice-premier la delegazione cristiana ha consegnato una lettera in cui si chiede: il rientro a casa delle famiglie fuggite; che il governo collabori in maniera attiva alla loro protezione; che gli studenti possano tornare a scuole e gli adulti al proprio lavoro in piena sicurezza; un risarcimento danni per le persone alle quali è stata distrutta la casa.