31/12/2009, 00.00
IRAQ
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Nouri al-Maliki e il rompicapo di Kirkuk

di Layla Yousif Rahema
L’imminente visita del premier nel Kurdistan fa sperare in una riconciliazione con Baghdad. Ma Kirkuk, che possiede il 25% del petrolio irakeno fa gola ad arabi e turcomanni. L’Iran teme un potente Stato kurdo; gli Usa temono una conflagrazione che potrebbe ritardare la loro uscita dall’Iraq nel 2011.
Baghdad (AsiaNews) – Il premier iracheno Nouri al-Maliki visiterà presto la regione semi-autonoma del Kurdistan per firmare un accordo con il presidente Massoud Barzani sul futuro della milizia curda dei peshmerga. Lo anticipa l’agenzia Aswat al-Iraq, senza indicare una data precisa. Secondo l’accordo, il governo di Baghdad riconoscerà i peshmerga; in cambio il governo di Erbil gli consegnerà gli introiti ricavati da tasse e dazi trattenuti finora nelle sue casse. Di conseguenza, i salari e le pensioni di 90mila miliziani, prima onere del governo curdo, diventeranno responsabilità dell’amministrazione centrale.
 
Il viaggio di Maliki è una mossa politica per distogliere l’attenzione dalle recenti bombe a Baghdad e crearsi nuove alleanze con gli eterni “nemici” del nord in vista delle elezioni del marzo prossimo? Oppure si tratta del risultato delle forti pressioni Usa per l’attuazione dell’art. 140 della Costituzione irachena che chiede un referendum sullo status di Kirkuk per stabilire se i suoi abitanti vogliono rimanere sotto il governo di Baghdad o di Erbil?
 
Il Kurdistan detiene già tra il l0% e il 15% delle riserve petrolifere del Paese. Kirkuk da sola ne possiede circa il 25%. Se la città finisse in mano curda, Erbil controllerebbe più o meno il 40% dei giacimenti di tutto l’Iraq. Inaccettabile per arabi e turcomanni che la rivendicano a sé; ma anche per Siria, Iran e Turchia, timorose che un Kurdistan forte, territorialmente e economicamente, possa infiammare le richieste di annessione delle comunità curda al loro interno.
 
Fin dall’inizio dell’invasione americana dell’Iraq, gli osservatori hanno visto Kirkuk come la possibile miccia che potrebbe innescare una guerra civile. Per questo il referendum è stato sempre rimandato e i rapporti tra Maliki e le autorità curde hanno iniziato a oscillare tra tensione e collaborazione.
 
Due anni di tira e molla
 
Maliki inizia a corteggiare i curdi nel 2007, dopo aver perso i suoi principali alleati sunniti e sciiti, garantendo il rispetto dell’art. 140 e la “normalizzazione” di Kirkuk, ovvero il trasferimento forzato di circa 12mila famiglie di arabi iracheni insediati nella città da Saddam come parte di una campagna di pulizia etnica negli anni ’80. La normalizzazione è la precondizione necessaria all’attuazione del referendum. Queste promesse hanno fruttato a Maliki la sopravvivenza del suo gabinetto nel momento in cui sadristi, Iraqi National List e Iraqi Accordance Front rompono con lui. Ma il premier disillude le attese: rimanda in continuo il referendum e a metà 2007 non fa nulla per impedire gli attacchi turchi contro le basi del Kurdistan Workers’ Party (Pkk) in Kurdistan.
 
In seguito, il miglioramento della situazione della sicurezza in Iraq ha cancellato molte delle scuse per rinviare il processo di normalizzazione e i politici curdi hanno iniziato a sospettare che Maliki intendesse usare la crescente forza del governo centrale per vanificare le conquiste faticosamente raggiunte dai curdi dopo l’invasione americana, quando il governo di Baghdad era debole.
 
L’inimicizia tra i due leader  è tale che al-Maliki e Barzani si parlano raramente. Le truppe irachene e i peshmerga curdi si sono scontrati più volte nelle zone contese, costringendo i funzionari degli Stati Uniti a mediare per evitare un’escalation.
 
Oggi il primo ministro iracheno ha più che mai bisogno di forti appoggi politici: un probabile suo successo nelle prossime elezioni è divenuto difficile dopo i sanguinosi attentati di agosto, ottobre e dicembre. L’Amministrazione Obama, inoltre, è molto più decisa di quella Bush a risolvere il dossier Kirkuk. Un’escalation di tensione tra arabi e curdi, infatti, potrebbe ritardare il completamento del ritiro delle forze Usa, previsto entro il 2011. Il vicepresidente Joe Biden preme per una soluzione consensuale tra le parti che rivendicano Kirkuk. Ma a controbilanciare le pressioni americane ci sono quelle di Teheran, del tutto contraria a concessioni al Kurdistan e molto influente su Maliki. Che, per questo, potrebbe mirare a raggiungere un accordo diretto con Erbil, sperando ancora una volta che piccole concessioni temporanee lo aiutino a rimandare di nuovo il referendum. Almeno fino alla sua rielezione a marzo.
 
Così, mentre le altre sfide della sicurezza stanno diventando più gestibili, la frattura arabo-curda a Kirkuk è diventata sempre più pericolosa. Ciò potrebbe rendere la relativa stabilità di Kirkuk una ricordo del passato.
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