02/12/2008, 00.00
IRAQ
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Nel “nuovo” Iraq c’è una strategia che mira ad eliminare i cristiani

di Dario Salvi
Joseph Yacoub, esperto di cristianesimo in Medio Oriente, denuncia “politiche discriminatorie” del governo di Baghdad, incapace di garantire “unità e sicurezza “ ad un Paese diviso ed egoista. Il ritiro delle truppe americane è un cambiamento “di facciata”, mentre i cristiani continuano a essere perseguitati.
Lione (AsiaNews) – Non nasconde la propria inquietudine per l’Iraq e il futuro della comunità cristiana Joseph Yacoub, caldeo iracheno, professore di scienze politiche all’Università cattolica di Lione ed esperto di cristianesimo mediorientale. Da profondo conoscitore della realtà irachena, egli boccia l’idea di una enclave cristiana a Ninive e denuncia “una strategia politica volta a eliminare i cristiani” che va contrastata superando “la logica delle divisioni e degli egoismi personali”.

Egli, poi, è critico nei confronti dell’accordo sul ritiro delle truppe americane, giudicato solo “un cambiamento di facciata” che non restituisce piena “sovranità nazionale” all’Iraq, contrario alla legge elettorale che definisce “una misura discriminatoria” nei confronti dei cristiani, la cui responsabilità è da imputare al “governo di Baghdad” che non è stato capace di garantire “l’unità e la sicurezza nel Paese”. Ed è preoccupato, infine, per il clima di “sfiducia e paura” che si respira all’interno della comunità cristiana, garante nella storia irachena di “pluralismo, ricchezza e multi-culturalità”, mentre oggi è abbandonata al proprio destino.

Ecco, di seguito, l’intervista rilasciata da Joseph Yacoub (nella foto) ad AsiaNews:

Professor Yacoub, come giudica l’accordo sul ritiro delle truppe americane entro il 2011 sottoscritto dal governo e approvato dal parlamento iracheno?

La mia è una posizione critica, perché si tratta solo di un cambiamento di facciata. Nei prossimi tre anni l’esercito Usa rimarrà in territorio iracheno, quindi il Paese sarà a tutti gli effetti sotto occupazione. Una situazione che dura ormai da cinque anni e che non ha portato cambiamenti sostanziali in termini di sicurezza. Ora bisogna vedere come si muoverà l’amministrazione di Barack Obama dopo l’insediamento. Del resto vi è una clausola specifica nell’accordo, che prevede l’ipotesi di un ritiro anticipato o posticipato.

  
Nei giorni scorsi il governo aveva sbandierato una ritrovata sovranità nazionale.
A mio avviso si tratta di una legittimazione a livello formale, ma nel concreto cambia poco. Il governo, ad esempio, ha inserito la possibilità di un intervento in caso di minaccia alle istituzioni democratiche del Paese. Ma si può affermare, oggi, che il Paese sia davvero democratico? La presenza e il ruolo dell’America non cambiano nella sostanza.
 
Eppure si è parlato di ampio consenso al momento del voto parlamentare.
Il parlamento ha subito pressioni per votare a favore del piano di ritiro e lo scrutinio finale lo testimonia. Si è cercata una larga maggioranza per dare legittimità al testo, ma l’assenza di 86 deputati su 275 e i 35 voti contrari fanno emergere, in realtà, una maggioranza semplice.
 
Cosa  pensa della legge elettorale che assegna solo sei seggi alle minoranze?
Quello che è stato fatto nei confronti delle minoranze è disdicevole e discriminatorio. Vi sono state manifestazioni di protesta, ma il provvedimento è stato approvato. Appare evidente una politica di emarginazione verso la comunità cristiana, che nel caso di Mosul si è trasformata in persecuzione. Sembra che ci sia una strategia deliberata che mira a eliminare politicamente i cristiani dal Paese.
 
Chi ha interesse a farlo?
La colpa è di chi governa l’Iraq. In teoria le minoranze sono riconosciute e tutelate dalla Costituzione, ma si tratta anche qui di una dichiarazione di facciata, perché la realtà è drammaticamente diversa.
 
I cristiani rimasti in Iraq sembrano spinti verso un bivio: o l’esodo o il rifugio nella piana di Ninive. Non c’è una terza via?
Qui sta il punto. Bisogna ragionare in termini complessivi e guardare al Paese nella sua totalità, mentre è evidente una profonda spaccatura al suo interno. Prima si deve elaborare una visione globale, solo in seguito si potrà considerare anche lo statuto e la rappresentatività dei cristiani. L’Iraq deve rimanere unito, e basare le proprie fondamenta non su criteri confessionali, religiosi, etnici, che portano solo a divisioni. Bisogna uscire da questa logica, perché condurrà solo alla spaccatura del Paese.
 
Si è fatta  l’ipotesi di una nazione federale
Parlare di Stato federale può essere anche valido, ma solo se si parte dal riconoscimento del principio di unità pur all’interno delle differenze. La Costituzione, per come è stata elaborata, è foriera di separatismo; bisogna anzitutto sancire un accordo morale fra le varie fazioni, perché se manca l’unità il Paese crolla.
 
Ma c’è  la volontà di restare uniti?
Questo è il punto. Torniamo ai cristiani: il fatto di creare una enclave nella piana di Ninive porterà solo delle complicazioni, dei cambiamenti in negativo all’interno della comunità e nel Paese. Nel migliore dei casi essa diventerà una zona tampone fra gli arabi e i curdi, e potrà essere strumentalizzata. Non può essere la soluzione per una comunità che vive nel Paese da millenni e che è una testimonianza concreta di pluralismo, di multi-culturalismo, di ricchezza per l’Iraq. I cristiani sono cittadini iracheni a tutti gli effetti, la missione della Chiesa è quella di essere un ponte fra le diverse culture e la condizione è quella di avere un Iraq fondato su criteri civici. Non un Paese diviso, che corre il rischio di ripiegarsi su se stesso e isolarsi. E garante di tutto ciò deve essere il governo, sostenuto dalla comunità internazionale.
 
Cosa ne pensa della decisione dell’Unione europea di accogliere 10mila rifugiati?
Anche qui, il punto è garantire sicurezza e permettere un ritorno nella terra natale. Per i cristiani, in particolare, conta moltissimo l’elemento psicologico: devono sapere che non sono soli e isolati. Se sanno di essere protetti, non perdono la fiducia e non si sentono orfani. Mi ricordo quanto diceva mia madre quando eravamo piccoli, 50 anni fa: c’è qualcuno che pensa a noi, e si riferiva al papa. Non siamo orfani. I cristiani hanno bisogno di questo aiuto psicologico e di questa solidarietà. L’ideale è aiutarli a rimanere nella loro terra.
 
Professor Yacoub, quale futuro vede per l’Iraq?
Il punto è che l’Iraq ritrovi la via dell’unità, della stabilità e della pace. Siamo tutti iracheni, apparteniamo tutti a questo Paese, a prescindere dall’etnia e dal credo religioso.
 
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