Malaysia, pena di morte nonostante le riforme: il 38% riguarda reati di droga
Nonostante nel 2023 sia stata abolita l'obbligatorietà, molte delle condanne a morte in Malaysia riguardano ancora reati di droga. La preoccupazione di Amnesty Internationale che chiede una moratoria sottolineando le violazioni dei diritti umani. La direttrice esecutiva Vilasini Vijandran: "Mina la credibilità del Paese". Cresce la distanza tra gli orientamenti dei tribunali di grado inferiore e delle corti superiori su questa materia.
Kuala Lumpur (AsiaNews) - Amnesty International Malaysia ha espresso forte preoccupazione per la persistente applicazione della pena di morte nel Paese del’Asia meridionale per reati legati alla droga, nonostante le ampie riforme che avrebbero dovuto portare al superamento di questa pratica.
Vilasini Vijandran, direttrice esecutiva ad interim, ha osservato che il 38% delle nuove condanne a morte emesse dall’Alta Corte negli ultimi mesi riguarda proprio reati legati alla droga, sollevando dubbi sulla reale volontà del Paese di rispettare gli standard internazionali in materia di diritti umani.
Nel 2024 è stato il Medio Oriente la regione con il più alto numero di condanne capitali: Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno effettuato il 91% delle esecuzioni globali. Amnesty International nel suo ultimo rapporto denuncia l'uso della pena di morte per reprimere il dissenso e le minoranze, e chiede una moratoria, sottolineando le gravi violazioni dei diritti dei detenuti, in particolare per reati di droga.
Facendo riferimento alle norme del diritto internazionale, la direttrice ha sottolineato in un comunicato che i reati legati alla droga non rientrano nella categoria dei “crimini più gravi”- una classificazione riservata, secondo le Nazioni Unite, a reati come l’omicidio intenzionale, nei quali la pena capitale può eventualmente trovare giustificazione, ma solo in casi eccezionali. "Continuare a condannare a morte persone per reati non letali, soprattutto alla luce delle stesse riforme legislative malesi, mina la credibilità del Paese sulla scena internazionale", ha aggiunto.
Sebbene l’Alta Corte sia l’organo giudiziario che ha emesso tutte le recenti condanne a morte, i dati mostrano che la Corte federale ha confermato solo 43 condanne capitali in totale, nessuna delle quali per reati di droga. Questo indica un crescente divario tra le prassi dei tribunali di grado inferiore e la supervisione delle corti superiori, mettendo ulteriormente in luce l’esigenza di una maggiore coerenza nell’applicazione della giustizia dopo la riforma.
La Malaysia nel luglio 2023 aveva approvato la legge sull’abolizione dell'obbligatorietà della pena di morte per alcuni reati. Un passo che fu una diffusamente salutato come una riforma storica che ha eliminava l’automatismo della condanna capitale per undici reati, tra cui omicidio, terrorismo e traffico di droga.
Ai giudici è stato concesso un margine di discrezionalità per imporre pene alternative, come la reclusione da 30 a 40 anni e le fustigazioni, superando così l’approccio uniforme che per anni aveva suscitato critiche. A seguito della riforma, la popolazione carceraria nel braccio della morte si è ridotta di quasi il 90%, poiché molte condanne sono state commutate in pene detentive a lungo termine.
Nonostante i progressi, Vilasini Vijandran ha ribadito che il mantenimento della pena di morte - anche se a discrezione del giudice - per i reati di droga rappresenta ancora una macchia sul profilo dei diritti umani della Malaysia, specialmente ora che il Paese detiene la presidenza dell’Asean.
"Abolire completamente la pena di morte per i reati di droga costituirebbe un precedente potente per l’intera regione", ha affermato. "Conferirebbe anche maggiore autorevolezza alla Malaysia nel tutelare i propri cittadini condannati a morte all’estero, a condizione che tale impegno sia sostenuto da riforme significative sul piano interno".
Il Sud-est asiatico resta una delle poche regioni al mondo in cui la pena di morte è ancora applicata attivamente, in particolare per reati legati alla droga. Singapore mantiene una linea dura e continua a eseguire impiccagioni secondo quanto previsto dal Misuse of Drugs Act. Il Paese ha ripreso le esecuzioni nel 2022 dopo una pausa di due anni dovuta alla pandemia.
L’Indonesia conserva la pena di morte per reati gravi, compresi quelli legati alla droga, ma non esegue condanne dal 2016, configurando una moratoria di fatto. La Thailandia permette ancora la pena capitale, ma non vi sono state esecuzioni dal 2018 e il ruolo della discrezionalità giudiziaria è in crescita.
Il Vietnam continua a praticare esecuzioni, anche se i dati sono segreto di Stato (come per la Cina e la Corea del Nord). Si ritiene che la maggior parte riguardi reati connessi alla droga. Le Filippine hanno abolito la pena di morte nel 2006, ma periodicamente tornano proposte politiche per reintrodurla, soprattutto in relazione al narcotraffico.
In questo contesto, le riforme della Malaysia del 2023 erano state accolte come un passo avanti. Tuttavia, il continuo ricorso alla pena capitale per reati di droga, anche se a discrezione dei giudici, pone il Paese in contrasto con un trend regionale e globale sempre più orientato all’abbandono della pena di morte, in particolare per i crimini non violenti.
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