L’agosto della disgregazione della memoria in Russia
Il tentato golpe che nel 1991 portò alla fine dell'Unione Sovietica, la consacrazione della cattedrale di Cristo Salvatore nel 2000, la strage dei bambini di Beslan del 2004: tre anniversari estivi che hanno costretto i russi a ripensare in questi giorni all’incerta evoluzione del proprio destino.
Il mese di agosto, che in Russia manifesta le prime incertezze meteorologiche autunnali, è gravido di memorie decisive per il corso degli eventi degli ultimi decenni, che si ricollegano agli sconvolgimenti degli ultimi tempi. Il 19 agosto 1991 ebbe luogo a Mosca il tentativo di colpo di Stato da parte del Kgb contro il presidente Mikhail Gorbačëv, che segnò l’inizio della disgregazione dell’impero sovietico. Cinque mesi prima si era tenuto un referendum, in cui la stragrande maggioranza dei cittadini delle quindici repubbliche aveva votato per mantenere in piedi l’Unione Sovietica, e l’impero sembrava ancora in grado di superare le contraddizioni e le divisioni, rimanendo una superpotenza con un poderoso arsenale atomico, in grado di controllare metà dei Paesi del mondo come suoi satelliti.
Il fallimento del tentativo di eliminare Gorbačëv, con assalto di carri armati davanti alla Casa Bianca sul lungofiume della Moscova e il trionfo di Boris Eltsin che sventola la bandiera della Russia in mezzo a una folla festante, senza vittime né distruzioni, spalancò uno scenario completamente diverso: gli “uomini forti” erano ormai impotenti, e soltanto cinque giorni dopo, il 24 agosto 1991, l’Ucraina proclamava la sua indipendenza e di fatto la fine dell’impero, che venne sciolto quattro mesi dopo, il 25 dicembre. Dalle torri del Cremlino vennero tolte per sempre le bandiere rosse con la falce e martello (oggi conservate in un museo), sostituite dal tricolore della repubblica russa, che poco dopo si trasformò in Federazione, e il primo e ultimo presidente sovietico si ritirò in pensione.
Per quanto si cerchi di attribuire la responsabilità di quegli eventi alle singole personalità di Gorbačëv, Eltsin o dei falliti golpisti, è evidente che una realtà così gigantesca e poderosa come l’Unione Sovietica non poteva dipendere solo dalle incapacità di alcuni, o dall’audacia di altri. Molti sono i fattori che hanno poi determinato l’evoluzione successiva della Russia: i problemi economici e amministrativi, la diffusione senza limiti della corruzione, gli insuccessi bellici, le catastrofi ecologiche come l’esplosione della centrale di Černobyl, la crisi dell’ideologia marxista-leninista, la crescita delle rivendicazioni identitarie nazionali e molto altro.
L’effetto del crollo ha lasciato nella memoria dei russi soprattutto il risentimento nei confronti dell’Occidente, ma la verità è che gli avversari storici non cercavano la completa dissoluzione del mostro sovietico, per mantenere un ordine mondiale bifronte. Più volte gli occidentali hanno salvato l’impero, come nella seconda guerra mondiale, nonostante l’alleanza iniziale di Stalin con Hitler, o nella crisi dei missili di Cuba, conclusa con gli abbracci tra John Kennedy e Nikita Khruščev, fino alla catastrofica invasione dell’Afghanistan, risolta a livello regionale senza trascendere in una nuova guerra globale. Perfino il crollo del muro di Berlino del 1989 non prevedeva la scomparsa dell’Unione, nonostante la riunificazione delle due Germanie e la spinta decisiva al distacco da parte degli altri paesi dell’Europa orientale, compresi i Baltici e infine l’Ucraina.
Dopo il 1991, le fasi della disgregazione sono proseguite con la guerra cecena, e di nuovo l’Occidente si è schierato dalla parte di Mosca, senza appoggiare l’indipendenza dei popoli minori della federazione. Ora siamo arrivati a una fase successiva del processo iniziato 33 anni fa, con la guerra in Ucraina e i rivolgimenti dell’intero ordine geopolitico globale, ma ancora non si vede quale sarà la conclusione, se un effettivo “ordine multipolare” o soltanto una nuova cortina di ferro tra Oriente e Occidente.
Il patriarca ortodosso di Mosca Kirill (Gundjaev) ha tentato di trasformare la memoria agostana in una nuova celebrazione della rinascita della Grande Russia, ricordando la solenne consacrazione della cattedrale di Cristo Salvatore, avvenuta proprio il 19 agosto dell’anno giubilare del 2000, ospitando il Concilio che dichiarò la canonizzazione dell’ultimo zar Nicola II, e approvò il documento sulla Dottrina Sociale della Chiesa, il manifesto del “sovranismo ortodosso” che ha guidato la politica del nuovo presidente Vladimir Putin nel successivo quarto di secolo. La più grande chiesa ortodossa della Russia, costruita nel corso di diversi decenni per celebrare la vittoria su Napoleone del 1812, era stata poi fatta saltare in aria da Stalin nel 1931, quando il dittatore georgiano aveva ormai assunto il potere assoluto.
Dopo il crollo dell’Urss, la ricostruzione della cattedrale accanto al Cremlino costituì il primo atto simbolico del recupero dell’identità imperiale, e l’opera ebbe inizio grazie all’accordo tra il patriarca Aleksij II (Ridiger) e l’allora onnipotente sindaco di Mosca Jurij Lužkov, in previsione delle celebrazioni dell’850° anniversario della fondazione della capitale, in vista della sostituzione di Kiev come “città-madre” di tutte le Russie. Già nell’agosto del 1996, qualche mese prima del successivo anno giubilare, Aleksij celebrò la prima liturgia nella cappella inferiore della Trasfigurazione, e i lavori si conclusero nel 1999, quando ormai il potere stava passando nelle mani di Vladimir Putin.
Kirill era allora il metropolita-oligarca che cercava di risollevare le sorti della Russia e della sua Chiesa, umiliata dalle accuse di collaborazionismo con il potere ateista e insidiata dalle ondate di proselitismo di cattolici e protestanti provenienti da tutto l’Occidente, nella convulsa “rinascita religiosa” degli anni Novanta. Dopo quindici anni di patriarcato, oggi Kirill non ha dubbi nell’attribuirsi ogni merito della ricostruzione della cattedrale e di tutto il potere ecclesiastico russo, ricordando durante la celebrazione come allora “avevo spiegato al sindaco Luzkov la colossale mancanza di chiese nella capitale, che era ai margini delle statistiche di spazi ecclesiastici rispetto al numero di fedeli”. Ora invece egli esalta con orgoglio “lo straordinario monumento che sta al centro di Mosca”, il cui significato risiede nel fatto che “anche le persone che sembrano lontane dalla fede hanno compreso la sua necessità”, essendo comunque “legate alla fede per la propria origine, educazione ed appartenenza al popolo russo”.
Dalla cattedrale si è quindi passati al piano delle “Duecento chiese” da ricostruire a Mosca, realizzato e superato grazie soprattutto al successore di Lužkov, l’attuale sindaco Sergej Sobjanin in carica dal 2010, in tandem con lo stesso patriarca. Kirill ricorda che “Mosca è l’unica megalopoli al mondo dove si costruiscono così tante chiese, mentre nel resto del mondo si chiudono, e questo testimonia la crescita della fede nel nostro popolo”; anche se le statistiche affermano che a Mosca, e in tutta la Russia, più chiese si costruiscono, meno persone le visitano. In effetti, il patriarca insiste sul fatto che “non dobbiamo limitare la nostra predicazione ai confini delle chiese”, ma rendere l’intero popolo più partecipe della vita ecclesiastica.
La memoria di agosto si trasforma quindi dalla dissoluzione alla rinascita, ma un altro evento ha costretto i russi a ripensare in questi giorni all’incerta evoluzione del proprio destino. La mattina del 1° settembre 2004 avvenne infatti il più tragico atto terroristico della storia russa recente, la strage della scuola di Beslan in Ossezia del nord all’inizio del nuovo anno scolastico, con 1.100 ostaggi trattenuti dai terroristi per tre giorni, con esplosioni e sparatorie furibonde che lasciarono sul terreno 27 terroristi morti e 314 vittime tra gli ostaggi, di cui 186 bambini. Il presidente Putin, per la prima volta in vent’anni, si è recato in questi giorni in visita alle “Madri di Beslan”, compiendo un giro propagandistico anche in Cecenia, proprio durante l’offensiva ucraina nella regione di Kursk.
Putin intendeva mostrare la sua superiorità sulle pretese ucraine, ricordando le motivazioni stesse che lo avevano portato al potere, quando aveva promesso, già da primo ministro nel 1999, che avrebbe fatto fuori tutti i terroristi. Il bagno di folla caucasica ha ricordato quello successivo al tentativo di golpe di Evgenij Prigožin dello scorso anno, quando Putin (o un suo sosia) si concesse agli abbracci degli ingusceti per celebrare la sua unione indistruttibile con tutti i popoli della Russia. Alle madri dei bambini assassinati a Beslan aveva allora promesso di “raccontare tutta la verità” sulla strage, ma le loro rappresentanti si sono lamentate di non aver avuto in realtà alcuna soddisfazione in questo senso. Il presidente, in un dialogo che non è stato mostrato in televisione, ha risposto imbarazzato che avrebbe chiesto ad Aleksandr Bastrykin, capo del comitato investigativo, di risolvere la questione “al più presto”.
In preda a evidente confusione, Putin ha poi ricordato in modo impreciso il numero delle vittime dell’attentato, parlando di “334 persone, tra cui 136 bambini”, cinquanta in meno di quelli effettivamente defunti. Egli ha poi cercato istericamente di incolpare “le forze che dall’estero hanno cercato di giustificare e aiutare i terroristi, anche con motivazioni morali”, ricollegandosi agli avvenimenti attuali, poiché “i nostri nemici continuano a sconvolgere il nostro Paese, istigando e provocando le azioni criminali nella regione di Kursk, nel Donbass e in tutta la Novorossija”, cioè l’Ucraina. Cercando aiuto nella memoria di fatti passati, Putin e Kirill sperano di far risplendere il volto della nuova Russia vittoriosa, rendendo ancora più evidente la confusione e l’impotenza di un sistema sempre più incerto e contraddittorio.
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