L’Occidente, ultima speranza (delusa) dei profughi iracheni
Mentre i Paesi arabi favoriscono entrate, ma solo temporanee, gli iracheni in fuga cercano “stabilità e sicurezza” in Europa e negli Stati Uniti. I governi occidentali, però, guardano con indolenza al problema. Procuratore dei caldei in Europa: “I cristiani i più frustrati, l’Occidente e le organizzazioni internazionali facciano di più”. Seconda parte del reportage sull’emigrazione irachena.
Roma (AsiaNews) – I Paesi arabi e del Medio Oriente non possono più garantire un futuro ai profughi iracheni e ai loro occhi è l’Occidente l’ultima speranza, il paradiso dove trovare sicurezza e stabilità. Naturalmente la piaga dell’emigrazione tocca in modo profondo tutto il Paese, dagli sciiti, ai sunniti, ai cristiani. Ma questi ultimi vivono una frustrazione maggiore laddove, come raccontano ad AsiaNews, arrivano in Europa “fiduciosi della sua umanità e della sua cristianità” e vengono invece respinti. Attraverso AsiaNews mons. Philippe Najim, procuratore dei caldei in Europa, lancia un appello: “L’Occidente e i governi europei in particolare possono e devono fare di più per tutti i profughi dall’Iraq”. E alle organizzazioni umanitarie internazionali: “Se non ve ne occuperete voi, gli emigrati iracheni rimarranno senza speranza”.
Europa
Siria, Turchia e Giordania garantiscono solo permessi temporanei e tendono a trasferire i rifugiati verso Paesi terzi. Così questa gente vive per anni con l’idea di trovarsi lì solo di passaggio, in attesa di un visto che permetta loro di raggiungere Australia, Europa, Canada e Stati Uniti. Mons. Najim, responsabile della comunità caldea in Europa aggiunge: “Cristiani e musulmani fuggono e soffrono nella stessa misura, ma i cristiani che arrivano in Occidente sono più frustrati. Partono credendo che l’Europa, cristiana, capirà meglio e avrà compassione delle loro sofferenze. Ma spesso vengono delusi”. Le condizioni di chi arriva sono disastrose. Viaggiare illegalmente fino al nord Europa, ad esempio, costa fino a 15 mila dollari a persona e non tutti riescono ad arrivare; molti muoiono durante il percorso a causa delle grandi difficoltà e pericoli che si incontrano.
Tranne i Paesi scandinavi, in particolare la Svezia, quasi tutti gli altri nell’ultimo anno hanno ristretto il numero dei permessi. “L’Italia, poi, non ha neppure un programma specifico per i profughi come quelli previsti in Germania , Olanda, Inghilterra e Norvegia. Lì, i richiedenti asilo, appena arrivano, vengono inseriti nella comunità attraverso corsi di lingua, ai bambini è garantita istruzione, hanno alloggi e un assegno mensile di mantenimento. In Italia non esiste nulla di tutto ciò”, denuncia mons. Najim.
“In questi anni abbiamo avuto migliaia e migliaia di cristiani emigrati in Europa e il Patriarcato caldeo – ammette il procuratore - non era assolutamente pronto a seguire i profughi della sua comunità”. Al momento sono circa 100 mila i caldei sparsi in Europa, dove per lo più ottengono il riconoscimento di asilo per motivi umanitari, che devono rinnovare ogni anno.
Mons. Najm, in vista del Natale, rivolge un appello ai governi: “Ci associamo alle parole del Papa (pronunciate all’Angelus del 17 dicembre) e invitiamo i governi europei a capire la situazione tragica che vive l’Iraq; i profughi continuano a soffrire e chiedono solo di vivere una vita normale. La Chiesa caldea chiede che l’Europa non chiuda gli occhi davanti al dolore di questa gente, cristiani e musulmani. E, dove possibile, faciliti la nostra attività pastorale, senza disperdere la comunità dei fedeli”. Infine alle organizzazioni umanitarie internazionali: “Prendete coscienza della vita che conducono queste migliaia di profughi in Siria, Turchia, Libano, Giordania ed Europa; non hanno uno specifico stato legale, e se non ve ne occuperete voi, continueranno a vivere bisognosi di tutto e ormai privi di ogni speranza”.
Stati Uniti
Organizzazioni umanitarie sottolineano che il forte flusso di profughi dall’Iraq verso gli Stati Uniti imporrà all’amministrazione Bush di riesaminare la sua politica che autorizza l’asilo solo a 500 iracheni l’anno. Gli Usa ritenevano che la condizione di rifugiati per questa gente fosse temporanea, ma l’aggravarsi della situazione in Iraq non fa pensare che gli immigrati torneranno a casa in tempi brevi. Ellen Sauerbrey, assistente segretario di Stato per i rifugiati, riferisce che il presidente Usa ha l’autorità di alzare gli ingressi anche a 20mila.
Finora sono pochi gli iracheni riusciti ad ottenere il soggiorno negli Stati Uniti, mentre Washington e Nazioni Uniti devono ancora accordarsi su chi e come gestire il problema. Sauerbrey sostiene che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) “dovrebbe lavorare meglio”. Dal canto suo l’Unhcr risponde che per farlo ha bisogno di maggiori fondi dalla comunità internazionale.
Arthur E. “Gene” Dewey, ex assistente segretario di Stato per i rifugiati, spiega che fino all’anno scorso “per ragioni politiche” il governo Bush “scoraggiava” l’insediamento di profughi iracheni negli Usa “per il messaggio psicologico che questo comportava: in Iraq non andava bene”. Stime ufficiali parlano di 200 iracheni ammessi negli Usa nell’ultimo anno, ma quasi tutti avevano fatto richiesta prima della guerra del 2003. Sauerbrey ammette: “Anche se in futuro garantiremo asilo a 20mila iracheni, sarebbe un numero molto inferiore al problema generale”.
L’anno scorso l’amministrazione Bush ha chiesto fondi per 70mila rifugiati da tutto il mondo. Di questi ne sono stati ammessi solo 42mila per “mancanza di fondi e impossibilità di ottenere garanzie che i richiedenti non rappresentavano un rischio per la sicurezza nazionale”.
La Chaldean Federation of America, fa notare che dopo la Guerra del Golfo, Washington ha fato entrare circa 12mila musulmani sciiti, fuggiti dalla persecuzione di Saddam. “Perché non si adotta la stessa politica per i profughi cristiani dall’Iraq?”, chiede il direttore della Federazione, Joseph Kassab. (MA)
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