L’Asia, continente di migranti: una sfida e un’opportunità per il mondo
Alla Conferenza mondiale su Xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto delle migrazioni mondiali che si è aperta ieri si affronta il tema da una prospettiva cristiana. Quali sono le problematiche più urgenti legate alle migrazioni?
Roma (AsiaNews) – L’Asia, il continente più popoloso al mondo (4,46 miliardi di persone), capace di generare più del 50% del Pil mondiale, è una delle fonti più consistenti dei problemi legati alla migrazione e alla xenofobia.
Secondo l’Unhcr, nella regione Asia-Pacifico vi sono almeno 7,7 milioni di persone di cui l’Onu si prende cura. Di questi 3,5 milioni sono rifugiati; 1,9 milioni sono sfollati interni; 1,4 milioni senza Stato e senza nazionalità.
È ovvio che le cifre reali sono molto più grandi, ma difficili da recuperare. Va detto che i rifugiati, che si sottraggono a situazioni di guerra o di violenza, spesso sfruttano proprio le vie delle migrazioni generali, andando nei Paesi dove si può trovare lavoro e forse tranquillità e pace.
I lavoratori migranti si muovono dai loro Paesi, economicamente meno sviluppati, verso quelli più ricchi. Così milioni di persone viaggiano in cerca di fortuna da Filippine, Indonesia, Cambogia, Myanmar, Vietnam, Nepal, verso Paesi come il Giappone, la Corea del Sud, la Malaysia, la Thailandia, Hong Kong, Taiwan, la Cina e il Medio oriente. Secondo l’ILO, nel 2015 questo flusso di persone era di 25,8 milioni nella sezione Asia-Pacifico e di circa 17 milioni negli Stati arabi.
La maggior parte dei governi dei Paesi dell’Asia sfrutta il nazionalismo e - se non il razzismo - almeno la superbia della propria razza come un collante sociale, per sostenere l’unità delle loro giovani nazioni.
Vale la pena non dimenticare il fatto che oltre ai migranti stranieri, in Paesi come India e Cina, vi è anche una enorme migrazione interna: circa 300 milioni di dalit e tribali in India e oltre 200 milioni di migranti in Cina. Questi lavoratori migranti soffrono le stesse ingiustizie vissute dagli immigrati nei Paesi del Golfo, o in Europa: mancanza di contratto di lavoro, orari da schiavismo, nessun diritto alla salute o alla scuola per i loro figli, paghe misere, insicurezza, violenze.
Fino ad ora, le migrazioni sono state in qualche modo ostacolate e la xenofobia era spesso motivata dal timore che i migranti rubassero il lavoro ai locali. Ma al presente, in diversi Stati, un vero alleato per combattere la xenofobia è la crisi demografica che sta colpendo tanti Paesi sviluppati. Tale crisi porta a una riduzione della forza lavoro e ad una crescita della spesa sociale per la sanità e le pensioni. Diversi demografi, come James Liang, sostengono che un alto tasso di crescita della popolazione, che la rende giovane, sostiene non solo la forza lavoro, ma anche la capacità di innovazione e di rischio nella società. Ciò significa che il futuro nell’inventiva e nella crescita del Pil appartiene ai Paesi che sostengono le nascite o che permettono ai migranti di entrare nel loro territorio.
Per questo – anche se con difficoltà - sempre più Paesi stanno aprendo le porte agli stranieri.
L’esempio più tipico è il Giappone, con un tasso di fecondità pari a 1,4 e con una popolazione che si riduce sempre di più e diviene sempre più vecchia. Dal prossimo aprile, il governo aprirà una nuova agenzia per gestire e accrescere i flussi di lavoratori migranti che nei prossimi anni entreranno in Giappone. In particolare, per le Olimpiadi del 2020 la società giapponese ha bisogno di centinaia di migliaia di lavoratori di tutti i tipi: servono manovali per costruire gli stadi, ma anche persone con lavoro qualificato per accogliere i milioni di futuri turisti. Il governo di Tokyo ha anche assicurato che darà un nuovo status residenziale ai lavoratori migranti. Finora, infatti, tutti i migranti arrivano in Giappone con visto turistico e poi trovano lavoro, ma solo con visto di apprendisti a paga bassa, e possono rimanere nel Paese solo per alcuni anni.
In più vi sono problemi più nascosti: i migranti arrivano in Giappone attraverso dei broker, figure che contattano i lavoratori nei Paesi d’origine, mettendoli in comunicazione con le aziende giapponesi. Essi garantiscono il posto di lavoro e il viaggio di andata in aereo. In tal modo stabiliscono con i migranti un credito difficile da ripagare per via dei bassi salari.
Vi è poi la piaga della prostituzione. Ci sono molte donne, soprattutto filippine, vietnamite e thai, che arrivano in Giappone come ‘apprendiste’ e lavorano in negozi e fabbriche durante il giorno. Alla sera e di notte lavorano nel mercato del sesso.
Come molti compatrioti uomini, le ragazze vengono attratte con il miraggio di un lavoro che permetterebbe loro di guadagnare molti soldi. Ma non è la verità. Il datore di lavoro ha rapporti con i club di prostituzione, e a volte toglie loro il passaporto, perché non possano fuggire.
Molti missionari sono impegnati nell’aiuto ai migranti in Giappone, ma la loro opera riesce finora solo a sostenere la loro vita nel quotidiano e nei bisogni più essenziali, non a livello formale e legale. C’è bisogno che l’accoglienza di migranti non avvenga solo perché costretti dalla demografia, ma da un cambiamento di mentalità, passando dalla visione di una società “omogenea” a una società multiculturale.
Per quanto riguarda poi l’accoglienza ai rifugiati, nel 2017, su 19mila domande di asilo, il Giappone ha riconosciuto lo status di rifugiato solo a 100 persone.
Il bisogno di forza lavoro in vista dei campionati di calcio del 2022, e le critiche della comunità internazionale sono stati la spinta per il Qatar a migliorare le leggi per i lavoratori migranti impiegati come collaboratori e collaboratrici domestiche. I domestici – di solito tutti stranieri - potranno lavorare per massimo 10 ore al giorno, dovranno ricevere pagamenti mensili e un giorno di vacanza a settimana, oltre che tre settimane di ferie nel corso dell’anno. A fine contratto i lavoratori riceveranno anche una liquidazione corrispondente a tre settimane di pagamento per ciascun anno di servizio. In passato molte donne straniere impiegate nel Paese erano costrette a lavorare per 100 ore settimanali. Inoltre, ad esse veniva sottratto il passaporto, trattenuta la paga e molte sono state vittime di violenza fisica e sessuale.
Il Qatar non è l’unico Paese dell’area a essere accusato di abusi verso i lavoratori stranieri. Nel 2015, l’Indonesia aveva annunciato che avrebbe smesso di inviare staff domestico a 21 Paesi della regione mediorientale proprio a causa dei maltrattamenti da essi subiti.
Il caso dei Rohingya
Non è possibile parlare di xenofobia e razzismo in Asia senza affrontare quella che da molti è stata definita come la più grave crisi di rifugiati. Perché se quella dei rifugiati afghani è senz’altro più vasta come numero, più di sei milioni rifugiati in Pakistan e Iran, quella dei Rohingya è forse la più dolorosa perché sono rifiutati non solo dal Myanmar ma anche da altri Paesi dove essi hanno cercato rifugio. Diversi osservatori hanno definito i Rohingya come la minoranza più perseguitata al mondo.
In maggioranza musulmani, questa minoranza in Myanmar è trattata da molti buddisti birmani come un gruppo di migranti illegali dal Bangladesh. E sebbene molti di loro abbiano vissuto in Myanmar da generazioni, ad essi viene negata la cittadinanza birmana.
La loro situazione è divenuta tragica dallo scorso 25 agosto, quando a causa di alcuni scontri con alcuni militanti Rohingya, le forze di sicurezza birmana ed estremisti buddisti si sono dati a violenze senza fine, cacciando via la popolazione dello Stato del Rakhine e bloccando le operazioni umanitarie. Secondo Médecins sans frontières, fra il 25 agosto e il 24 settembre dello scorso anno, sono stati uccisi 6700 Rohingya. Fra questi sono compresi anche 730 bambini sotto i tre anni di età. Il governo birmano si è difeso dicendo di aver combattuto contro terroristi.
Al presente vi sono fra i 700mila e un milione di rifugiati al confine fra Bangladesh e Myanmar. Il governo di Dhaka ha chiesto al Myanmar di riprenderli, ma per ora sono ancora molto pochi ad aver fatto ritorno. Intanto le operazioni umanitarie sono riprese nel Rakhine centrale, ma non nel Nord Rakhine, dove vi sono state le violenze.
Il nostro corrispondente dice: Voglio presentare alcuni fatti sulla crisi dei Rohingya, per comprendere cosa dovremmo fare come famiglia umana e come seguaci di Gesù compassionevole.
Il Bangladesh ha permesso l’entrata dei Rohingya
L’anno scorso, allo scoppiare del conflitto, migliaia di Rohingya hanno tentato di entrare in Bangladesh. Nei primi tre giorni il governo di Dhaka non lo ha permesso. Ma coloro che erano a guardia della frontiera e la polizia soffrivano di questo e hanno loro permesso di entrare perché erano devastati: molti di loro erano arrivati a piedi, in barca, nuotando, percorrendo strade per giorni. La maggior parte di loro avevano lasciato dietro i loro cari, dopo aver sperimentato uccisione, stupri, la peggiore persecuzione.
Così, il premier Sheikh Hasina ha risposto alla crisi. Ha incontrato i Rohingya a Cox’s Bazar, dove erano rifugiati e ha offerto loro un riparo. Sheikh Hasina ha dichiarato che avrebbe offerto un rifugio temporaneo e aiuti, ma che il Myanmar avrebbe dovuto presto “riprendere indietro i suoi connazionali”.
Alcune storie di Rohingya
Motalab Ahmed, un Rohingya 65enne, vive nel campo 1 di Kutupalong da un anno. Egli racconta: “Avevo una farmacia nel distretto di Mundu, in Myanmar. Ma siccome sono musulmano, hanno cominciato a perseguitarmi e da un ricco commerciante sono diventato un mendicante”.
Roksana, 10 anni, non vuole ricordare quello che è successo ai suoi genitori lo scorso anno, alla fine di settembre. Suo padre è stato ucciso di fronte a lei e la madre è stata stuprata davanti ai suoi occhi. Lei e sua mamma sono arrivati in Bangladesh dopo tre giorni di cammino. Lungo la strada hanno mangiato erba per sopravvivere.
Akasha, una donna di 70 anni, è arrivata portata sulle spalle del figlio. Fra le lacrime dice: “Non avevo mai visto una persecuzione simile: i soldati birmani non si sono fermati davanti a nulla, stuprando perfino una donna anziana. Stupri, incendi, razzie per cacciarci. Ma quale peccato abbiamo fatto? Siamo nati in Myanmar, non abbiamo fatto del male agli altri. Abbiamo detto grazie al governo del Bangladesh e a tutti i donatori internazionali, che ci stanno aiutando nei campi di raccolta”.
Parlando con molti Rohingya, dal profondo del cuore essi dicono di voler tornare a casa. Essi hanno lasciato il luogo dove sono nati per mancanza di rispetto e di sicurezza. Essi dicono anche che chiunque ama la sua patria come una madre e che essi sono divenuti dei rifugiati a causa della persecuzione della loro fede, per ragioni politiche e economiche.
Le sfide
Nei distretti di Banzarban e di Cox’s Bazar, alla frontiera col Myanmar, vivono circa un milione di Rohingya. Per essi le sfide principali sono procurarsi cibo, un riparo, medicine, sicurezza, formazione. Secondo l’Unicef, ogni giorno nei campi Rohingya nascono 60 bambini. Molti adolescenti e donne, per procurarsi ciò di cui hanno bisogno, si sono buttate nella prostituzione. Vi sono molte ong che vi lavorano, ma esse danno le stesse cose: riso, olio, ma non pesce. Così i profighi rivendono il riso e l’olio nei mercati locali per comprare carne e pesce. Senza alcun lavoro, uomini e donne Rohingya, annoiati, molte volte sono coinvolti in azioni criminali. La situazione diviene grave di giorno in giorno. I media locali riportano dati della polizia: nei primi otto mesi dall’agosto 2017, nei campi di rifugio in Bangladesh sono avvenuti 20 assassinii e 160 incidenti o altro tipo di violenza.
La risposta delle Ong
Al presente vi sono circa 100 ong che lavorano per i rifugiati Rohingya. Fra queste vi è la Caritas-Bangladesh, che è stata la prima ad arrivare e intervenire. La Caritas opera nella zona con 200 impiegati e offre cibo, ripari, cure mediche, strumenti per la pulizia, ecc.
Durante la sua visita l’anno scorso, papa Francesco ha incontrato alcuni Rohingya a Dhaka. Ascoltando le loro storie il Santo Padre ha pianto.
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