Lhasa, Pechino ha mandato al patibolo altri quattro tibetani
Secondo il Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, la sentenza di morte è stata emessa l’8 aprile. Non si fermano i massacri contro l’etnia, dopo le proteste del 14 marzo dello scorso anno.
Lhasa (AsiaNews) – La Corte intermedia del Popolo di Lhasa, capitale del Tibet, ha eseguito lo scorso 20 ottobre la condanna a morte comminata l’8 aprile contro quattro tibetani per la loro presunta partecipazione alle proteste di massa avvenute lo scorso anno nella città. La condanna è stata eseguita immediatamente ai danni di Lobsang Gyaltsen, Loyak, Penkyi e un quarto di cui non si conosce il nome. La sentenza è stata supervisionata ed approvata dal comune. I media cinesi non hanno riportato in alcuna forma la notizia, resa pubblica dal Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia.
Secondo tale fonte, il corpo di Lobsang Gyaltsen, proveniente dalla periferia di Lhasa, è stato consegnato alla famiglia e poi immerso nel fiume Kyichu. Non si sa se l’appello formalizzato dagli avvocati difensori dei quattro e presentato alla Corte Suprema sia stato preso in esame. Secondo le fonti ufficiali, l’8 aprile la Corte intermedia del popolo ha condannato soltanto due degli accusati (Lobsang Gyaltsen e Loyak) alla pena di morte. Altri due (Thenzin Phuntsok e Kangtsuk) avevano ricevuto la sospensione della condanna, mentre un quinto (Dawa Sangpo) è stato condannato all’ergastolo. L’accusa per i cinque è quella di aver dato fuoco ad alcuni negozi di Lhasa, causando la morte di sette persone, durante gli scontri del 14 marzo.
Il 21 aprile, la stessa Corte ha condannato altri tre tibetani (Chime, Penkyi della contea di Nyemo e un suo omonimo di Sakye) alla pena di morte, poi sospesa; a dieci anni di galera e all’ergastolo. Il Centro tibetano esprime “molta preoccupazione” per la sorte di coloro che sono in attesa di giudizio. Il governo cinese, al momento attuale, è quello che esegue più condanne a morte al mondo. Secondo gli attivisti per i diritti umani, Pechino dovrebbe mostrare equilibrio e soprattutto garantire ai propri cittadini un processo equo: questo vale per tutte le etnie che vivono in Cina.
La pena di morte, sostengono i dirigenti del Centro tibetano, “non si è mai dimostrato un deterrente valido al crimine, quindi non può essere usato per giustificare nulla”. Secondo i media statali, le condanne a morte dei tibetani “servono per rispondere e calmare la rabbia del popolo”. Ma questo, conclude il Centro, “non può essere un discorso accettabile, da nessun punto lo si guardi”.
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