L'era del Grande Teppista
Lo scrittore Viktor Erofeev, che vive in esilio a Berlino dal 2022, ha pubblicato un romanzo dal titolo Velikij Gopnik, in cui cerca di mostrare come il putinismo sia cresciuto dall’inconscio dei russi a partire dai cortili di Leningrado. Fino a un estremismo verso la propria stessa anima, incapace "di accettare una vita normale”.
Uno degli scrittori e intellettuali più importanti della Russia, Viktor Erofeev, che vive a Berlino dal 2022, ha pubblicato un romanzo dal titolo Velikij Gopnik, il “Grande Teppista”, in cui cerca di mostrare come il putinismo sia cresciuto dall’inconscio dei russi a partire dai cortili di Leningrado, dove il futuro “presidente eterno” Vladimir Putin si mostrava in tutta la sfacciataggine del furfantello di strada, appunto il gopnik, termine diventato popolare nell’ultimo periodo sovietico. La caratteristica delinquenziale del potere sembra ormai trasferita dalla Russia al mondo intero, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump e dall’annuncio di nomine di personaggi a dir poco inquietanti nei posti-chiave dell’amministrazione americana, dalla segreteria di Stato alla difesa e alla giustizia, coordinati dal nuovo ministro della semplificazione statale, l’irruente miliardario Elon Musk. A capo dell’intelligence Usa dovrebbe addirittura andare Tulsi Gabbard, beniamina delle televisioni russe, considerata la principale propagandista putiniana in Occidente, e ministro della salute potrebbe diventare Robert Kennedy, il più estremo dei no-vax.
Si poteva aspettare una reazione alla cancel culture che negli anni passati ha cercato di imporre una socialità sottoposta a un’ossessiva censura interiore, col timore che qualunque espressione possa diventare offensiva secondo varie interpretazioni. Ora vediamo il rigurgito opposto del rifiuto di ogni convenzione, non soltanto linguistica o comunicativa, ma anche giuridica e di rapporti internazionali. Questo era l’atteggiamento dei gopniki, i banditi di strada che rubavano non per necessità, ma per protesta contro le regole dominanti, particolarmente rigide nel mondo sovietico brezneviano. Il termine viene dalla sigla Gop, Gorodksoe Obščestvo Prizora, “Comunità Cittadina di Sorveglianza”, quando a fine XIX secolo venne istituito in un edificio del centro di San Pietroburgo un centro di detenzione e controllo dei ragazzi bezprizorniki, “senza controllo”, orfani o scappati di casa che si dedicavano a furti e atti teppistici per le strade della capitale.
Dopo la rivoluzione del 1917, in quello stesso edificio – che oggi ospita l’hotel Oktjabrskaja – si continuò l’opera di recupero dei minorenni, chiamata Gosudarstvennoe Obščežitie Proletariata, sempre Gop, ma inteso come “Ostello Statale del Proletariato”. La quantità di teppisti leningradesi crebbe in modo esponenziale, e i gopniki della Ligovka, il quartiere della città dove era situato l’ostello, divennero una definizione estesa a tutta l’Unione Sovietica, quasi una categoria universale del genere umano. Da questa “subcultura” del passato russo-sovietico, Erofeev propone ora di trarre indicazioni su come si è costruita la Russia di oggi, parlando di un presidente reale e di uno “mitologico”, del ritorno dello stalinismo nelle anime, dei motivi che hanno generato un nuovo totalitarismo, fino alla guerra in Ucraina.
Il libro è in parte autobiografico e intreccia diversi soggetti e motivi secondari, che lo fanno diventare un romanzo concettuale, secondo lo stile di Erofeev che rinnova le caratteristiche “polifoniche” della grande letteratura russa. Raschiando i meandri più contraddittori della natura umana, si svelano le tante dimensioni del gopnik che risiede in ciascuno, diventando un’apertura quasi “metafisica” agli orizzonti che poi finiscono per imperversare nella società russa e mondiale. È la realtà che viene travolta dal caos, mostrando fragilità imprevedibili, sia metaforiche che documentali, dall’angoscia e dal risentimento fino alla repressione e alla guerra, in una cronologia confusa e spezzettata.
L’autore salta dalla Russia putiniana prima della guerra a diverse fasi del periodo sovietico, a cominciare dal febbraio della rivoluzione del 1917 che si proietta su tutti gli altri eventi successivi. Anche la geografia mostra sovrapposizioni tra Russia, Francia, America e Africa, come una catastrofe planetaria dovuta al collasso del “mondo russo”. In 200 pagine di romanzo si addensano affreschi anche solo accennati dei tanti volti del Grande Teppista, rendendone la lettura impegnativa pur nella splendida efficacia della lingua, ma vale la pena di nuotare nel mare tempestoso del Velikij Gopnik per comprendere la crisi degli anni Venti in cui tutti ormai siamo immersi.
Dai ricordi d’infanzia dello scrittore, sui difficili rapporti con la madre che non riconosceva il suo talento e il suo modo di vedere la vita, si passa ai contrasti dell’eroe-autore con lo Stato, ripercorrendo gli anni in cui Erofeev era un dissidente antisovietico. Il momento cruciale è il tentativo di salvare dalla prigione la sorella minore O., che in parte ricorda la storia autentica della persecuzione del fratello minore Andrej in anni recenti, tra il 2007 e il 2010, tentando di accordarsi con l’ideologo dell’amministrazione, il presidente Stavrogin, un nome preso dai Demoni di Dostoevskij. Viene inserito negli episodi il “piccolo Stalin”, che accompagna le varie fasi del romanzo in dimensione onirica, fino a diventare compagno del “successore”. Si analizza quindi la psicologia del gopnik dall’infanzia e dai romantici insuccessi, fino al potere assoluto in cui si trasforma in un moderno Erostrato, l’antico pastore e criminale greco che, per immortalare in qualche modo il suo nome, incendiò e distrusse il celeberrimo tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico. Particolarmente efficace è la descrizione della “pandemia della stupidità”, che viene analizzata in una corrispondenza del protagonista con Erasmo da Rotterdam.
Citando un brano del romanzo, il Grande Gopnik, come una zecca, si mise a mordere tutti dalla parte posteriore, ma quando si voltò verso di loro, scoprì che si stava guardando nello specchio. Questa immagine è il contenuto fondamentale del libro, e la descrizione della Russia attuale: il potere nel Paese è in mano ai gopniki, che nascono dal profondo dell’anima russa. Erofeev avverte i lettori: voi potete non essere d’accordo con Putin e perfino odiarlo, ma la lingua con cui egli pensa e si esprime non è diversa dalla vostra. Putin si capisce soltanto da come muove le labbra, anche senza pronunciare una parola intera, e la sua visione del mondo è radicata nel terreno storico nazionale, che genera da secoli delle erbe avvelenate, si ricorda nel racconto.
La “mentalità popolare” viene descritta nelle scene del piccolo Stalin, con cui il protagonista del romanzo s’incontra in una circostanza particolare, nella stanza da bagno accanto alla madre denudata, mentre siede sulla tazza e partorisce una piccola bambola maschile, capace di generare una nuova specie umana. Da qui ha origine lo stalinovirus, che penetra tutte le cellule umane e si moltiplica all’infinito. Stalin afferma di non essere mai uscito dal bagno, perché ho esperienza del sottosuolo, come il protagonista di un altro romanzo di Dostoevskij, che sognava la vendetta contro il mondo intero senza mai abbandonare il suo scantinato. Stalin spiega che ogni comandante, anche se non se ne rende conto, è un mio uomo, ogni capofamiglia tiene in pugno tutti i suoi, non vi libererete mai di me, e perfino la madre del protagonista all’occorrenza parla con lui con “la voce della Patria”.
La struttura staliniana penetra negli strati più profondi della vita sociale, si manifesta anche nelle situazioni più banali e quotidiane, dando vita al “mito di Putin” nel diffondersi del gopničestvo, il “teppismo” e vandalismo che trascina l’intera società ai livelli più miserevoli, quello che Erofeev definisce il “cimitero delle offese infantili”. Riportiamo di nuovo un brano del testo, non più metaforico, ma direttamente pubblicistico: Il gopničestvo è diventata la religione della Russia, ha risucchiato in sé anche l’Ortodossia, l’Impero e tutte le attività collettive… i gopniki sono i nostri campioni, We are the champions, my friends, l’unica nostra passione è la Vittoria”.
Una delle scene del romanzo mostra un Putin giovane delinquente di strada, che invita il suo amico tedesco Henrick a vivere con lui un’esperienza iper-realistica, immergendosi in un pestaggio del suo nemico personale e nell’umiliazione di una ragazza vicina di casa, di cui lui si è innamorato senza ricevere soddisfazione. Il ragazzo “Vova”, diminutivo di Vladimir, si trasforma nel presidente che viene a sua volta continuamente frustrato dalle infinite sconfitte nella guerra. A questo punto appare sulla scena il Kolobok, una figura delle favole russe, un “panino animato” che fugge dalla cucina in cui è stato preparato e deve schivare le fiere del bosco, finché viene divorato dalla volpe, quello che in Occidente viene riportato come The Gingerbread Man, “L’omino di pan di zenzero”. La sua figura rappresenta le condizioni di miseria e fame della società, il bisogno di “raschiare il fondo del barile”, unico desiderio rimasto dopo tutte le avventure del banditismo di strada.
Nella favola la lepre rappresenta il popolo, il lupo è il bandito e l’orso è lo Stato, mentre la volpe è il “nemico esterno”, più sviluppato e “tecnologicamente avanzato”. La conclusione del romanzo è che “la Russia è la terra dove non c’è difesa”, non soltanto dal teppismo di strada che diventa la politica dello Stato, ma soprattutto dall’estremismo verso la propria stessa anima, “l’incapacità di accettare una vita normale”. Un pericolo che riguarda il mondo russo delle inestinguibili vendette contro i nemici “di strada e di confine”, e che si diffonde nel mondo intero come un nuovo virus dell’ostilità di tutti contro tutti, contro cui non esiste alcun vaccino, che verrebbe comunque rifiutato dai gopniki no-vax.
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