29/06/2024, 08.45
MONDO RUSSO
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L'economia bellica della Russia senza futuro

di Stefano Caprio

Contro ogni previsione, il Pil della Russia sta crescendo a ritmo sostenuto. Non c’è più bisogno di mettere qualcosa da parte per i “tempi bui”, che sono già arrivati. Tutto si riversa sul consumo immediato e ovviamente la massa principale dei soldi finisce nell’industria bellica, attorno alla quale crescono i vari gruppi di un indotto senza fine.

Con le discussioni alla Duma di Mosca sulle modifiche alla riforma fiscale, cercando di introdurre tasse sempre più estese e salutando definitivamente il sistema assistenziale degli ultimi decenni, la Russia si sta preparando a ridefinirsi in modo definitivo nella economia di guerra, destinata a modellare il Paese per molti anni, anche dopo il regno eterno dello zar Putin. L’ultima trovata è l’aumento della tassa sui divorzi, che permette di prendere due piccioni con una fava: afferma la prevalenza dei “valori tradizionali” difendendo la famiglia e il principio dell’indissolubilità del matrimonio, e allo stesso tempo assicura un gettito abbondante e garantito, essendo la Russia, al di là dei proclami, assai poco legata a quegli stessi valori, con un tasso di divorzi molto più alto che nella maggior parte dei Paesi del mondo (solo l’anno scorso ce ne sono stati più di 700mila). In compenso è stato proposto anche di eliminare la tassa sui matrimoni, per le stesse ragioni.

L’effetto di queste misure sulla vita dei russi è in realtà paradossale, in quanto invece di un impoverimento, sembra aprirsi una stagione di benessere e arricchimento. La presidente della Banca centrale di Russia, Elvira Nabiullina, ha rivelato che in effetti stanno molto crescendo i crediti alle persone e alle aziende, perché “la popolazione diventa sempre più ricca”. Contro ogni previsione, la Russia sta battendo ogni record di tasso di crescita del Pil, che nel 2023 è risultato del 3,6% rispetto all’1,8 che era stato pronosticato, e nei primi quattro mesi di quest’anno è salito a un’indecente 5,4%, creando un entusiasmo popolare per la “economia di mobilitazione”.

Uno dei più importanti economisti russi, il professor Igor Lipsits, che ora vive in Lituania dopo essere stato cacciato dal mondo accademico e dichiarato “agente straniero”, spiega a Radio Svoboda che “prima la Russia lasciava parte dei proventi delle esportazioni come riserve all’estero, ora non si lascia più nulla e tutto viene reinvestito all’interno del Paese”. Non c’è più bisogno di mettere qualcosa da parte per i “tempi bui”, perché i tempi bui sono già arrivati, e nessun futuro più ci aspetta. Tutto si riversa sul consumo immediato, e ovviamente la massa principale dei soldi finisce nell’industria bellica, attorno alla quale crescono i vari gruppi di un indotto senza fine. Ai soldati non servono solo le armi, ma anche il cibo, i vestiti, le medicine e tanto altro, e tutta la popolazione vive in stato di mobilitazione, anche quelli che non devono andare al fronte, almeno per il momento.

Più che economia “di guerra”, potrebbe essere definita economia “della fine dei tempi”, una sensazione di apocalisse vissuta in presa diretta. La dimensione religiosa sempre più applicata alla politica e alla società crea l’illusione che la Russia sia già nel regno dei cieli, che sia al di sopra delle turbolenze terrene dei popoli in preda all’anticristo occidentale, e che i soldati in Ucraina siano angeli scesi a difendere la purezza dei santi. Il presidente Vladimir Putin ha voluto confermare questa sensazione, recandosi in pellegrinaggio alla Lavra della Trinità di San Sergij, dove insieme al patriarca Kirill ha venerato l’icona della Santissima Trinità di Rublev, assurta ormai a simbolo della riunificazione celeste dei popoli slavi, baciando il sarcofago che contiene le spoglie di San Sergij di Radonež, patrono della Russia militante.

Il prodotto interno lordo cresce, ma non produce nulla per il futuro della Russia, che ha ormai raggiunto la sua condizione sempiterna. Come afferma Lipsits, “il Pil russo è ormai sepolto sotto le terre nere dell’Ucraina, insieme ai caduti e alle armi per cui si spendono tanti soldi”. Il “prodotto lordo” non riguarda tanto quello che si produce, ma quanto si raccoglie di valore aggiunto, mentre i grandi investimenti nella guerra non aggiungono nulla: è un enorme spreco di soldi, una “danza della morte”, come appare la vita quotidiana di Mosca con l’arrivo dell’estate, un continuo raduno di feste e bagordi in ogni angolo e locale della capitale.

In teoria, le nuove misure del governo dovrebbero ispirare un grande spirito di sacrificio e di sostegno alle necessità del momento contingente: siamo circondati dai nemici, stringiamo la cinghia e rinunciamo ai lussi. Invece si produce l’atteggiamento contrario: se tutti sono contro di noi, possiamo godercela fino in fondo, tanto non abbiamo più niente da perdere. Difficilmente questa illusione potrà durare a lungo, ma la generazione attuale dei russi ha perso la dimensione della “durata”, tre anni di guerra dopo tre di pandemia valgono come un’era geologica nella mente delle persone. Alla esaltazione apocalittica seguirà inevitabilmente una lunga “stagnazione putiniana”, visto che ormai tutti i parametri della vita sociale russa riconducono ai meccanismi del sistema sovietico, quelli della “economia orizzontale” sempre uguale a sé stessa.

Gli economisti avvertono il pericolo dell’effetto “elastico” del Pil, che si espande per poi ritorcersi contro, ti arrivano addosso i soldi che hai sprecato, finché rimani senza nulla. Il 40% dell’intero bilancio russo è costituito dalle spese per la difesa, ma anche per il resto della “economia civile” si calcolano enormi investimenti edilizi per la ricostruzione di Mariupol e di altre città distrutte in Ucraina, un capitolo assai poco “civile” del programma. Molti altri punti del testo ufficiale di bilancio sono segretati, e in gran parte si parla di “economia chiusa”, indecifrabile e tenebrosa come appunto avveniva ai tempi sovietici.

Quando Mikhail Gorbačev inaugurò la perestrojka, il passaggio fondamentale che poi non gli riuscì di realizzare fu proprio quello verso la “economia civile”, mentre tutto il sistema era indirizzato agli scopi della guerra fredda, da sostenere all’infinito. Le voci del bilancio erano classificate come “potenziale di mobilitazione”, tanto che in ogni fabbrica di articoli “civili” c’era una procedura di conversione bellica, da attivare al minimo segno di nuovo conflitto. Negli anni Novanta questi “potenziali” rimanevano a carico delle aziende senza alcun sostegno dello Stato, finendo per provocare continue bancarotte. Non si poteva disfarsene, perché era un “sacro tesoro” assai più importante dello sviluppo della società civile, e proprio questo fu uno dei motivi principali del crollo dell’Urss dal punto di vista economico: non poter rinunciare alla guerra per costruire la pace.

Gorbačev fu accusato di aver depresso l’economia con le leggi contro le bevande alcoliche, e molti attribuiscono la fine del sistema sovietico alle perdite per la guerra in Afghanistan, ma in realtà queste erano quisquilie a confronto dei macigni dell’economia bellica nel suo insieme, che ha prosciugato tutte le risorse dell’impero comunista. Oggi non si è ancora arrivati a quei livelli, ma l’Ucraina potrebbe rivelarsi per la Russia putiniana un nuovo Afghanistan; non quello dei talebani che ormai vanno a braccetto con i politici russi, ma il Paese che resiste ad ogni nuovo assalto, con il sostegno pur ondivago di tutto l’Occidente. Per ora invece i russi vogliono che la guerra continui per poter guadagnare; in una città relativamente periferica come Ivanovo, 300 km a est di Mosca, gli affari con la tessitura delle divise militari hanno generato un vero e proprio boom di guadagni, e gli abitanti locali sperano solo in nuove mobilitazioni.

Si creano dei clamorosi paradossi, come il crollo del mercato immobiliare a fronte dell’enorme crescita di quello edilizio: si fa di tutto per vendere le proprietà che non servono più a nessuno, e andare invece a costruire le nuove case delle zone devastate non solo in Ucraina, ma anche nella regione di Belgorod e altri territori coinvolti. Gli acquirenti vi si gettano comprando a pochi rubli, nella speranza di fare affari chissà quando. Il turismo interno si è intensificato in modo vertiginoso, non potendo tutti recarsi in amene spiagge asiatiche o cubane, e di conseguenza sono sempre più attivi i voli interni, anche se gli aerei sono sempre meno affidabili per mancanza di manutenzione e ricambi. In Crimea la maggioranza teme gli assalti dei droni ucraini, ma lo Stato offre incentivi sempre più allettanti, compresi gli alberghi a prezzo quasi gratuito, tanto altrimenti non si riempirebbero, senza contare il fascino perverso della vacanza in zona di guerra, che stimola il senso di onnipotenza di chi vuole a tutti costi sentirsi vincitore, e sprezzante di fronte a qualunque pericolo.

Non solo l’esaltazione bellica e la spensieratezza apocalittica tengono la popolazione russa in uno stato di ipnosi rispetto agli sviluppi dell’economia, e al futuro del Paese. Per anni l’unica linea politica di Putin era la “stabilità sociale”, dopo i convulsi anni Novanta che avevano sgretolato ogni certezza. La gente non vuole sapere come stanno veramente le cose, approfitta di possibilità nuove e insperate, e sfrutta l’onda di certezze ben diverse da quelle della condivisione comunista dei beni, o della protezione paternalista degli oligarchi. La Russia ha scelto di isolarsi in un proprio mondo, un mondo russo sempre più fasullo e incomprensibile, al di sopra e al di fuori delle coordinate geografiche, storiche, culturali e religiose. Come fu per l’Unione Sovietica nello scorso secolo, così nel terzo millennio la Russia tenta un esperimento mai visto: invertire il corso della storia, godersi il presente per tornare al passato, cancellando per sempre il futuro.

 

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