Le rivolte nei Paesi islamici: le multinazionali, i dittatori, la dottrina sociale della Chiesa
di Fady Noun
Fady Noun e Georges Corm analizzano l’ondata popolare in Tunisia, Egitto e in Medio Oriente. Debole, ma presente, il rischio di una strumentalizzazione delle proteste da parte dei radicali islamici. La risposta, secondo l’economista libanese, sta nell’applicazione delle regole ispirate dalla dottrina sociale della Chiesa. L’incendio corre il rischio di diffondersi ancora più a oriente, fino alle Filippine.
Beirut (AsiaNews) – La situazione politica al Cairo sembra giunta a un punto di stallo. Migliaia di persone occupano ancora piazza Tahrir, ma l’esercito sta lentamente restringendo l’area della protesta, per permettere al traffico di riprendere a scorrere, almeno in parte. Hosni Mubarak, che non sembra disposto a dare le dimissioni, ha annunciato un aumento del 15% nei salari della pubblica amministrazione e nelle pensioni. Ha pure dato disposizioni per un’inchiesta “trasparente, indipendente e imparziale” sulle violenze accadute durante la protesta, e in particolare l’aggressione subita dai manifestanti pacifici a piazza Tahrir.
Mentre continuano i colloqui, che però non sembrano portare a svolte decisive, il presidente degli Stati Uniti ha ammorbidito la sua posizione, dichiarando che “naturalmente l’Egitto deve trovare una via di negoziato, e credo che stiano facendo progressi”.
Il candidato più probabile per un’eventuale successione sembra l’attuale vice presidente, Omar Suleiman; Wikileaks afferma che già nel 2008 il vicepresidente era considerato il successore preferito da Israele, in caso della scomparsa di Mubarak. Nel frattempo proteste popolari contro le condizioni di vita stanno avvenendo anche in Iraq e in Kuwait.
Sull’ondata di sollevazioni popolari che sta scuotendo l’Egitto e i Paesi islamici dall’Africa del nord al Medio-Oriente Fady Noun, prestigioso giornalista, ha intervistato per AsiaNews l’economista Georges Corm, ex ministro libanese delle Finanze.
E’ con un misto di soddisfazione e di inquietudine che i libanesi assistono, sui loro televisori, alla sollevazione popolare che scuote in questo momento l’Egitto, e promette di spostarsi in altri Paesi arabi come lo Yemen, il Marocco, l’Algeria, dopo aver provocato la caduta del regime di Zein el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Particolarmente vicini agli egiziani, che lavorano in Libano a decine di migliaia, i libanesi seguono con passione, in tempo reale, ciò che accade a piazza Tahrir.
La soddisfazione non è che normale: un dittatore che molla dopo 20 o 30 anni di potere – Hosni Mubarak governa l’Egitto da 30 anni – è sempre una gioia per i partigiani della democrazia. L’inquietudine è anch’essa normale. Perché la sollevazione popolare può essere martirizzata e schiacciata, o, peggio, deviata dai suoi obiettivi e così sfociare in una nuova tirannia.
Perché tutti questi sollevamenti adesso? Quale è la dinamica? Per lo storico e economista Georges Corm, ex ministro libanese delle finanze (1998-2000), la scintilla di partenza, a Tunisi, è il gesto disperato di un uomo che si è immolato con il fuoco, dopo essere stato ridotto a una miseria estrema da un sistema economico ingiusto che si basava sulla repressione poliziesca.
A varie riprese, sulla falsariga dei numerosi economisti e sociologi che hanno analizzato il Terzo mondo, Georges Corm ha denunciato i regimi autoritari o francamente dittatoriali installati in certi Paesi, e non soltanto nel mondo arabo, appoggiandosi su reti di interessi economici e finanziari “talvolta evidenti, talvolta occulti”, dove multinazionali e oligarchie fanno fortuna in simbiosi spesso con i regimi al governo, saccheggiando le risorse nazionali, e dimenticandosi totalmente delle generazioni seguenti.
Senza la creazione adeguata di impiego, le economie di questi Paesi non possono soddisfare il mercato del lavoro nel quale si rovesciano, ogni anno, decine o centinaia di migliaia di giovani – di cui molti diplomati – ridotti in gran parte alla disoccupazione, all’emigrazione o alla miseria.
“Nel mondo arabo, questo modello è presente ovunque – precisa Corm - in Tunisia, in Egitto certo, ma anche in Libano, in Marocco, nello Yemen, in Giordania, in Siria, in Algeria, così come in numerosi Paesi dell’Asia. Si vede una plutocrazia politico-militare che tiene il Paese sotto controllo, sostenuta da autori di decisioni occidentali e multinazionali”. E ha aggiunto di aver accolto il rovesciamento del regime di Ben Ali, in Tunisia, come “una sorpresa divina”.
La responsabilità di questo stato di cose è comune ai Paesi interessati e all’Occidente, pensa Georges Corm. Da credente profondamente interessato alla Dottrina sociale della Chiesa, egli denuncia con vigore questo capitalismo selvaggio a scala planetaria, il neo-liberalismo trionfante di alcuni Paesi industrializzati occidentali. “L’onda di neo-liberalismo è quella che ha permesso la costituzione delle plutocrazie e la rivendicazione islamica è in parte il risultato di queste plutocrazie”, afferma.
L’analisi di Corm si sposa con quella dell’islamologo gesuita egiziano Samir Khalil, eminente fondatore del Centro di studi, di documentazione e di ricerca sugli arabi cristiani dell’Università St Joseph a Beirut. Secondo p. Samir Khalil “circa il 40% della popolazione egiziana vive in condizioni di povertà assoluta, con due dollari per persona al giorno, e talvolta meno”. Inoltre precisa che in Egitto i prezzi sono aumentati da cinque a trenta volte nel 2011.
Per lui queste cifre spiegano da sole molte cose. Per Corm, “le libertà democratiche” rivendicate dalla folla a piazza Tahrir non hanno la priorità; non devono occultare la terribile realtà della miseria, dell’ineguaglianza d’accesso alle risorse nazionali. Torna a ciò che è accaduto in Tunisia: “Che cosa ha scatenato i fatti della Tunisia? Non le classi medie. E’ un povero che si è immolato con il fuoco. In seguito, le classi medie sono scese in strada per rivendicare le libertà. Ma non bisogna dimenticare il problema della povertà: è determinante, soprattutto se si vogliono isolare le frange dell’islamismo estremista”.
Qual è il rischio di vedere trasformare le sollevazioni in corso in rivoluzione islamiche? Per alcuni è un pericolo reale. Così, p. Samir Khalil sottolinea il fatto che movimenti islamici come i Fratelli Musulmani, un’organizzazione fondata in Egitto all’inizio del XX secolo, hanno capito che le azioni di tipo sociale sono la migliore fonte di arruolamento per l’islamismo.
Del resto, i movimenti islamici non hanno mai nascosto di desiderare il potere. L’Iran, in particolare, segue da vicino l’evoluzione dei fatti in Egitto e la televisione degli Hezbollah in Libano ritrasmette e commenta in diretta per ore e ore.
Citato da Ghassan Hajjar, caporedattore del grande quotidiano di Beirut An-Nahar, il ministro iraniano degli esteri, Ali Akbar Salehi, afferma che il successo della rivoluzione in corso in Egitto aiuterà l’instaurazione di un Medio Oriente islamico.
Questa convinzione si basa su una recente dichiarazione della guida della rivoluzione islamica in Iran, Ali Khamenei, che in precedenza aveva affermato che “in conformità alle verità poste dall’Altissimo, un nuovo Medio Oriente si manifesta, e si farà su base islamica”. E ha aggiunto: “Il popolo egiziano musulmano ha un passato islamico, è stato all’origine di grandi glorie sulla strada del pensiero islamico e del jihad in vista di Dio”.
Dal canto suo, l’ayatollah Ahmad Khatami, il predicatore del venerdì alla moschea di Teheran, ha predetto che “la rivoluzione del popolo tunisino, e le manifestazioni popolari in Egitto, in Giordania e in Yemen (…) sono il segnale che un nuovo Medio Oriente comincia a disegnarsi sulla base dell’islam e delle rivendicazioni religiose popolari. Questi movimenti sono un prolungamento della rivoluzione islamica compiuta dal popolo iraniano”.
Per Georges Corm, tuttavia, il rischio di vedere precipitare nell’islamismo alcuni Paesi arabi è “debole”. “Ma è chiaro che bisognerà dare uno spazio ai movimenti islamici presenti nel gioco parlamentare”. E paragona questi movimenti islamici “islamo-democratici” a quello che furono in Europa i partiti “cristiano-democratici”.
Secondo l’ex ministro, l’Egitto offre un ventaglio di diversi movimenti islamici, e solo “l’ala estrema di questo ventaglio è estremista; d’altronde è alimentata dal wahabismo”, che proviene da alcuni ambienti in Arabia Saudita. Sono questi ambienti che spesso forniscono non solo la dottrina, ma anche i soldi; loro sono da temere.
Corm aggiunge che “il rischio islamico è debole in tutto il mondo arabo, a meno che i motori di decisione occidentali scelgano di strumentalizzare di nuovo alcuni movimenti islamici”. E’ stato il caso di Al Qaeda, un’organizzazione incoraggiata e aiutata dall’amministrazione Usa per lottare, verso la fine della guerra fredda, contro la presenza sovietica in Afghanistan. Per Georges Corm “c’è un’esasperazione musulmana che trovate fino in Thailandia e nelle Filippine, ed è normale. Il mondo islamico è stato, durante i due secoli passati, in una dinamica di sconfitta. Non vi è una sola società musulmana che non sia stata dominata da un progetto o da un Paese occidentale. Ma non saranno loro a conquistare il mondo”.
A margine, l’esperto denuncia l’islamofobia in Europa come “un diversivo ai problemi socio-economici reali dell’Occidente, e alle rivalità per l’accesso alle risorse rare e all’impiego”. L’economista torna alle premesse del suo ragionamento: “Il neo-liberalismo ha obbligato lo Stato a disimpegnarsi dal sociale e dall’economia, sotto il pretesto dell’equilibrio del budget. Le organizzazioni islamiche si sono infilate in questa breccia, e non solamente loro. Anche i miliardari – musulmani e cristiani – hanno creato le loro ong grazie alle quali dispongono di una fedele clientela elettorale. L’alternativa, è la dottrina sociale della Chiesa. Oggi in particolare è l’enciclica di Benedetto XVI, ‘Caritas in veritate’, che si colloca nella scia della ‘Rerum Novarum’ di Leone XIII”.
Nel pensiero di Georges Corm, il rispetto dei grandi orientamenti della dottrina sociale della Chiesa significa, fra l’altro, un fisco migliore, l’imposta patrimoniale, leggi di protezione sociale, la lotta contro i monopoli e le multinazionali, la lotta contro la corruzione e l’evasione fiscale, la lotta contro la privatizzazione di alcuni settori agognati dal settore privato, come quello della telefonia mobile, e così via.
Georges Corm conclude dicendo che in Oriente, la preoccupazione dell’affermazione identitaria ha fatto dimenticare alle Chiese la ricchezza della dottrina sociale. Ma il vero tesoro della Chiesa sono le sue encicliche; ecco quello che dovrebbe guidare la sua azione. Da parte sua, il cattolicesimo europeo non deve dimenticare che Cristo è nato in Palestina, non a Roma, e rispettare la diversità religiosa dell’Oriente; accettare, come affermava p. Youakim Moubarak, che la verità monoteista sia percepita in tre modi diversi.
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